Cultura

Valerio Massimo Manfredi, da Ulisse e Alexandros al lavoro nei campi: una biografia che è già Storia – L’estratto del libro in anteprima esclusiva

L’archeologo, cartografo, docente, scrittore, autore e volto della tv che dai campi di Piumazzo, su quella via Emilia battuta per secoli da romani e viandanti medioevali, si è catapultato, gettato, alla ricerca delle tracce del passato, dell’antica Grecia, del viaggio di Ulisse, compie in questi giorni ottanta anni

di Davide Turrini

La sua Storia tra le sue Storie. L’autobiografia di Valerio Massimo Manfredi La vita e la storia – istruzioni per l’uso (Aliberti editore) è una di quelle opere sfiziose e avvolgenti, permeate di un senso di sfida esistenziale costante, di una rinnovato desiderio di scoperta storica, creazione e narrazione tipica del metodo Manfredi. L’archeologo, cartografo, docente, scrittore, autore e volto della tv che dai campi di Piumazzo, su quella via Emilia battuta per secoli da romani e viandanti medioevali, si è catapultato, gettato, alla ricerca delle tracce del passato, dell’antica Grecia, del viaggio di Ulisse, compie in questi giorni ottanta anni. E la sua biografia curata assieme al figlio Fabio è una sorta di epitome, di miniatura antica, di bassorilievo della vita che ricalca lo slancio vitale, lo scatto sociale, l’affermazione professionale mondiale di chi ha ottenuto un riscatto, peraltro in scioltezza, narrando l’affascinante mistero della conoscenza storica. “I romanzi non raccontano fatti, o perlomeno non solo i fatti, che sono oggetto di studio degli storici”, spiega Manfredi riferendosi al romanzo storico, la sua intramontabile coup of tea, “compito dei romanzi è raccontare eventi verosimili, che riescano a suscitare emozioni, che ci permettano di conoscerci meglio e di conoscere le nostre origini”. Eccolo allora, il ragazzotto di campagna che racconta di sé e contemporaneamente riannoda i fili della storia (osservate come alla Proietti, Manfredi intima quel “a me gli occhi, please” quando ricostruisce in poche pagine le vicende di Ulisse). Quando non si esime dal lavoro nei campi col padre che gli dice “non voglio sentir dire sono stanco” o “non sono capace”.

Il collegio per sei anni, i classici professori di scuola che di fronte alle velleità di elevazione sociale e culturale (Manfredi aveva mostrato interesse per andare all’Università, facoltà di Lettere Classiche) gli sbattono sul muso un “tu andrai a vendere banane”. Manfredi ha una sorta di energia onnivora perpetua, una masticazione del sapere che ha tratti finanche spaventosi. “La scienza”, dice, “ha bisogno dell’immaginazione”. Eccolo allora in autostop per le strade elleniche, eccolo arrestato tre volte tra i 20mila chilometri percorsi in mezzo Medio Oriente tra i 1978 e il 1985, uomo normale tra uomini normali a spennellare vasellame, forchettoni, tazze, armi e pugnali che la terra fa riaffiorare dalle viscere del passato. Eccolo ancora Manfredi al cospetto della sfida Mondadori che lo eleggerà tra gli scrittori più venduti di fine Novecento inizio anni duemila. Eccolo con Oliver Stone a discutere di Alessandro Magno e con Dino De Laurentiis a riscrivere 29 volte il soggetto de L’ultima legione. Eccolo sorprendere Fidel Castro che gli chiede di districare la sempiterna sfida tra storia e finzione: “Fidel, tutto quello che è storico è nel libro. Il resto è mio”.

Prendere o lasciare. Metodo Manfredi. E poi in La vita e la storia – istruzioni per l’uso ecco scorrere tra discorsi, lezioni e incontri, le evocazioni dei miti che Manfredi ha come divorato dentro ad una ricostruzione romanzata che non ha mai dissimulato tratti da fabula ancorandosi saldamente alla storia. Manfredi ci ritorna più volte, soprattutto quando fa riemergere le sembianze di una specie di mito fondativo del sapere classico, la guerra di Troia. “Abbiamo dei poemi. E l’epica antica è un po’ come per noi il cinema è un modo di narrare che non tende a dire la verità, ma che mira a comunicare emozioni”. Per capire Valerio Massimo Manfredi, quindi, dobbiamo proprio sporgerci sul quel precipizio creativo lì dove la conoscenza storica perfino sul campo si imbeve di deduzione creativa, spinta dal desiderio più o meno conscio di una nuova scoperta tra una tomba che riemerge dal sottosuolo e il frammento di un papiro che riscrive l’ordine delle cose. Del resto, interviene, sul fondo, anche Alessandro Barbero, da un dialogo avvenuto nel 2013 con l’autore di Alexandros, un livello di verità dei fatti ovviamente esiste. Intendo un livello di verità dei fatti accertabili. È solo perché i nostri maestri e i nostri nonni e bisnonni hanno accertato più o meno tutto l’accertabile, che adesso noi abbiamo il problema di spingerci, come dire, in geografie ancora inesplorate”.

L’ESTRATTO IN ANTEPRIMA ESCLUSIVA

Mio nonno era un grande narratore. Un narratore popolare e non professionista, anche se averlo con noi non era facile, perché lui in questo senso era una sorta di star. Durante l’inverno andava nelle stalle, tutte le sere o quasi, a raccontare storie. Era molto richiesto dalle altre famiglie. Quando veniva giù una gran nevicata e non poteva andare a lavorare, veniva a casa nostra. Allora era tutto per me e per mio fratello. Stavamo ad ascoltarlo per ore e ore, finché aveva voglia di raccontare. Credo che sia stato proprio da lui, da mio nonno, che ho preso questa voglia, e forse anche questo talento di raccontare.

Sono nato in una famiglia di agricoltori. Mio padre aveva due poderi, che lavorava con dedizione e sacrifici. Sono stato educato con pochi, semplici princìpi. Mio papà mi diceva sempre: «Non voglio sentire la frase “sono stanco”», «Non voglio sentire dire “non sono capace”», «Non voglio che tu mi dica “mi hanno picchiato”, anzi se torni a casa e ti hanno picchiato io te ne do delle altre». Mi fasciava le mani e mi faceva prendere a cazzotti un sacco di grano, poi se ne andava e diceva: «Quando torno devi essere ancora lì che picchi». Quindi, insomma, sono cresciuto con poche “storie”. Sono andato in collegio all’età di dieci anni,
sottoposto a una disciplina veramente durissima e lì ci sono rimasto per sei anni. Quando mi preparavo per la maturità e il professore mi chiese: «Ma tu cosa vuoi fare dopo?» e io risposi «Lettere classiche», lui mi disse: «Ma perché non vai a vendere delle banane?» Quattro anni dopo gli regalai la mia prima antologia di storici greci, pubblicata da Zanichelli.

Mi ricordo ancora una sua interrogazione – lui era un crociano e mi interrogò su un frammento di Archiloco, che è un poeta arcaico, un mercenario, un personaggio straordinario. L’argomento era il frammento di un verso che, tradotto in italiano, suona così: «O, potessi toccare la mano di Neobule». Sono passati fiumi di inchiostro su questa frase: il rude mercenario, il guerriero sterminatore che ha un pensiero così leggero, romantico, bello per una donna. Lui mi chiamò e disse: «Venga Manfredi, si è preparato? Legga il passo di Archiloco». Lessi il verso e lui: «Bene, me lo commenti». E io chiesi: «Posso dire quello che penso?» «Sì, certamente», fece lui. «Questo è un frammento», dissi. «Ma noi cosa ne sappiamo di che cos’altro voleva toccarle?». Esplose come una bomba. «Lei è un insolente, vada al posto», urlò, e mi diede quattro. Poi, se ben ricordo, otto anni dopo fu trovato un papiro di Ossirinco in cui emerse che Archiloco, a Neobule, voleva toccare proprio tutto. Quindi non avevo
tutti i torti. Per me l’università fu una delle più belle avventure in assoluto. Dopo l’esame di Letteratura greca, io e un mio amico ce ne andammo in Grecia in autostop: volevamo vedere tutto quello che avevamo studiato. Facemmo quaranta giorni in autostop, gli ultimi cinque vivemmo con pane e uva sultanina, un cibo molto calorico che ci aveva regalato un signore di Corinto che la produceva. Alla fine andammo a Itaca a cercare il palazzo di Ulisse, che non c’era. Proprio quindici giorni fa ero di nuovo là, a vedere lo scavo compiuto da un amico collega di un palazzo miceneo nel nord dell’isola, a ugual distanza tra i due porti. Il mio amico guardava la scala tagliata nella roccia che saliva al piano di sopra e mi disse: «Ma non ti sembra di vedere Penelope che scende da quella scala?» La scienza e l’immaginazione sono due cose che non sempre stanno bene insieme. Però sono convinto che anche la scienza ha bisogno di immaginazione.

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