Sono passati cinque anni da quando – il 28 febbraio 2018 – il governo Gentiloni e i presidenti della Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna (Attilio Fontana, Luca Zaia e Stefano Bonaccini) stipularono le preintese per consentire a quelle regioni di accedere all’autonomia differenziata. Da allora la questione è andata avanti sostanzialmente in una dimensione secretata (grazie anche al silenzio dei media) per ben tre governi consecutivi, come si trattasse di un affare privato. Il primo governo Conte aveva al punto 20 del “contratto di governo” (sic!) proprio l’autonomia differenziata; poi il Conte 2 (a trazione M5s e Pd) continuò l’opera producendo il ddl Boccia; il governo Draghi diede vita al ddl Gelmini.

Il comune denominatore – oltre alla concorde prosecuzione del cammino verso l’autonomia differenziata, veramente trasversale, indipendentemente dal colore degli esecutivi – è stata la comune volontà dei governi di collegare quei ddl (volti a normare il percorso per richiedere, da parte delle regioni a statuto ordinario, “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n e s)” [ovvero norme generali dell’istruzione e tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, nda]) alla legge di bilancio sottraendolo così alla possibilità di referendum.

Tale volontà è ancor più pressante nel governo Meloni. Il micidiale 1-2 pandemia-guerra, il fallimento delle regioni (in particolare la Lombardia, che dal 2001 ha privatizzato il 49% del proprio servizio sanitario) nella gestione dell’emergenza Covid, il moltiplicarsi delle diseguaglianze non hanno sconsigliato il governo dal continuare la volata per concedere alle regioni a statuto ordinario potestà legislativa esclusiva su un pacchetto di 23 materie, all’interno del quali si concentrano i gangli vitali dello stato sociale, dei diritti universali e della nostra vita quotidiana: istruzione, sanità, beni culturali, infrastrutture, trasporti, ricerca scientifica, sicurezza sul lavoro, ambiente, alimentazione, rapporti con l’Ue e molto altro.

Tutto ciò – tra l’altro – avrà un riverbero sul contratto collettivo nazionale affiancato da contratti regionali, con diversificazione dei diritti di lavoratori e lavoratrici, sempre più soli e isolati, e ulteriore stemperamento del conflitto. Con l’autonomia differenziata si configura, peraltro, un vero e proprio cambiamento del nostro sistema istituzionale sotto mentite spoglie: 20 staterelli a marce differenti con diverse opportunità e diritti per i propri cittadini e cittadine; diritti determinati sulla base del certificato di residenza; dal “prima gli italiani” al prima i lombardi, i veneti, gli emiliano romagnoli.

Oggi che sembra che i media abbiano ritrovato la voce – purtroppo solo grazie all’atteggiamento da veni, vidi vici, che il ministro Roberto Calderoli sta mettendo in atto – l’attenzione e la consapevolezza si stanno finalmente attivando. La consapevolezza e il rifiuto del progetto eversivo dell’autonomia differenziata stanno crescendo giorno per giorno. Il patto scellerato all’interno del governo tra Lega e Fratelli d’Italia stupisce se si pensa a quanto apparentemente l’autonomia differenziata concretizzi un conflitto tra sé e quello che dovrebbe essere l’obiettivo fondamentale del partito di maggioranza – con la sua retorica della “patria” – massimo sponsor del presidenzialismo. In realtà, presidenzialismo e autonomia differenziata possono, da un certo punto di vista, essere considerati aspetti di una storia coerente che vede nella gestione apicale e monocratica – vuoi del presidente della Repubblica, vuoi del presidente della Regione – il proprio punto di forza.

Il ministro Calderoli in novembre aveva già provato a proporre un disegno di legge per normare l’accesso delle regioni all’ad. Quando una parte della società civile e, in maniera ancora più clamorosa, i presidenti delle regioni del Sud si sono sollevati chiedendo di non procedere in assenza di Lep – Livelli Essenziali di Prestazione – Calderoli, in un batter d’occhio, ha inserito la procedura per la determinazione dei Lep all’interno della legge di Bilancio; risolta la questione ha provveduto a definire il disegno di legge che è stato approvato in Consiglio dei ministri il 2 febbraio scorso. A proposito dei Lep è giusto e compatibile con il c.2 dell’articolo 3 (nel quale andrebbero individuati gli unici Lep ammissibili) determinare (sulle materie che verranno stabilite) livelli essenziali di prestazione per, ad esempio, Vibo Valentia consentendo che Treviso rimpingui ulteriormente il proprio benessere e le proprie prestazioni, già enormemente al di sopra persino della media italiana?

E’ giusto, cioè, istituzionalizzare le diseguaglianze che già esistono nel Paese? E’ corretto, poi, legare a una logica prestazionale l’esigibilità dei diritti universali? E’ inaccettabile che i Lep verranno determinati da una cabina di regia e, qualora essa non svolgesse il compito in 6 mesi, da un commissario. Questa drammatica rivisitazione dello stato sociale non verrà svolta dal Parlamento, come sarebbe corretto, ma da un gruppo di tecnici nominati dal governo; la Repubblica cambierà volto insieme all’interpretazione degli articoli 2,3,5 secondo la volontà di un manipolo di persone orientate politicamente in un unico modo. Anche le future intese verranno definite, elaborate, approvate altrove, con un limitatissimo, risibile intervento del Parlamento, che non potrà – infine – fare altro che ratificarle.

Per questo e molto altro domani 17 marzo, a Napoli, la Rete dei sindaci del Recovery Sud, coadiuvata da altri soggetti come il Tavolo Noadd, daranno vita all’iniziativa “Uniti e Uguali”. Moltissime e qualificate le adesioni, tra cui i medici dello Smi, i lavoratori della Whirpool e i Cobas della scuola. Il fatto fondamentale è però la presa di posizione degli amministratori locali (tra cui Davide Carlucci, coordinatore della Rete Recovery Sud e sindaco di Acquaviva delle Fonti, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli e Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci; l’ex sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ora coordinatore di Unione Popolare; ma anche sindaci del Nord e Centro Italia), che dall’autonomia differenziata avranno tutto da perdere: la concessione di potestà legislativa esclusiva in moltissime materie ai centri di potere regionali, lontani dai cittadini e dalle cittadine e dai loro bisogni rischierà di alienare ai comuni – già taglieggiati quanto a finanziamenti e risorse (in particolare dal 2012, con l’introduzione del cosiddetto “pareggio di bilancio” in Costituzione) – ulteriori fondi e di scippare loro ulteriori prerogative.

La manifestazione si svolgerà alle 11.30 a Santa Maria La Nova e prevede una serie di interventi da parte dei sindaci e delle altre personalità presenti. Alle 15 partirà un corteo da piazza Santa Maria La Nova lungo via Monteoliveto, via Medina, piazza Municipio, via San Carlo, piazza Trieste e Trento fino a piazza Plebiscito per la consegna a S.E. il Prefetto di un documento sul tema dell’autonomia differenziata. “Chiediamo a tutti di venire a Napoli: per dimostrare che c’è un’Italia che non ci sta, che non solo vuole solidarietà, ma rispetto del dettato costituzionale”, come ha detto Carlucci.

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