Dopo la strage di Cutro si è riaperto un intenso dibattito sulle politiche migratorie del Paese e sulla loro riformabilità. I nodi principali sono sempre gli stessi: dai decreti flussi alle sanatorie, dalle politiche “securitarie” in entrata e in uscita, particolarmente focalizzate su tratte e traffico illegale di persone da una parte e criminalizzazione della clandestinità dall’altra, fino ai vari centri di primo soccorso, accoglienza, identificazione ed espulsione, rimpatri. L’immigrazione in Italia è trattata soprattutto come problema di ordine pubblico, ma contemporaneamente – come dimostra lo stesso dibattito politico di queste settimane – è un’importantissima risorsa demografica ed economica. Questa contraddizione ha attraversato tutta la storia dell’immigrazione verso l’Italia, ben prima che fosse formulata una legge complessiva sul tema (la prima fu la Legge Foschi, solo nel 1986, e prima di essa non era prevista neanche la possibilità di richiesta di asilo). Da sempre, dunque, si gioca una partita tra spazi grigi, rimpallo di responsabilità a livello internazionale, pessima gestione – perlopiù emergenziale e per decreti – e mancanza di politiche strutturali che implichino reali politiche attive per l’integrazione.
È una lunga storia che ha visto il radicarsi di tanti dei meccanismi che conosciamo oggi prima ancora che ci fosse una reale elaborazione legislativa a partire dai tardi anni Ottanta. Serve quindi fare un passo indietro per capire meglio come siamo arrivati a oggi.
Secondo Dopoguerra-1963
È comune l’idea che l’Italia sia stata a lungo Paese di emigrazione e poi, dalla seconda metà degli anni Settanta e soprattutto dagli Ottanta, di immigrazione. Non è così. Per quanto questi flussi siano cresciuti gradualmente se ne ha traccia sin dai tardi anni Cinquanta. Una delle ragioni per cui si crede che negli anni Settanta ci sia stata una svolta netta è legata alle dinamiche internazionali: si è spesso detto che lo sviluppo dell’immigrazione straniera sarebbe avvenuto in Italia a seguito delle politiche di chiusura portate avanti dagli altri Paesi europei prima e durante la crisi petrolifera del 1973. Tuttavia, i tipi di flussi erano molto diversi e, inoltre, l’Italia aveva di per sé una forte attrattività per la congiuntura macroeconomica: se guardiamo ai dati sul reddito pro-capite il Paese non presentava un quadro eccessivamente distante da Francia, Germania federale o Gran Bretagna. Nel 1970 ad esempio il reddito pro-capite italiano ammontava a 2.112 dollari Usa, quello francese a 2.862, quello britannico a 2.350, quello tedesco a 2.744.
Inoltre, tra i Sessanta e Settanta in Italia ci fu un intenso momento di lotte sociali e politiche. L’immigrazione facilitò una strategia politica per il ribasso dei salari e per dividere i lavoratori e renderli politicamente più deboli.
1963-1986
Nel 1963 fu emanata la prima circolare, segno che il fenomeno era già visibile. La circolare 51 introdusse l’autorizzazione al lavoro per chiamata nominativa, la cui concessione era subordinata all’accertamento dell’indisponibilità di lavoratori italiani (fu chiamata “preferenza nazionale”). Il più delle volte, però, si entrò con visti da turismo e si simulò poi, una volta trovato lavoro, l’autorizzazione dall’estero. I canali ufficiali di incontro tra domanda e offerta e collocamento furono pressappoco inesistenti e operarono frequentemente invece le agenzie di mediazione abusiva. A fronte della meccanicità delle procedure ufficiali subentrò in filigrana il dispositivo della sanatoria: iniziarono a essere proposte delle deroghe che permettevano di superare il passaggio dell’assunzione dall’estero, nel caso in cui cittadini stranieri già giunti per altre ragioni (turismo, studio) o già da tempo in Italia, fossero interessati a ottenere una autorizzazione al lavoro.
Tutti gli anni Settanta, fino al 1986, furono segnati da una confusa e contraddittoria alternanza di circolari, disegni di legge, decreti governativi, che anziché semplificare le garanzie per la regolarità del soggiorno resero ancora più precarie le condizioni di vita degli stranieri senza però implicare un reale argine ai flussi. Le frontiere – di fatto – non erano davvero chiuse ma la vita degli stranieri era resa talmente difficile e precaria dalla vischiosità delle procedure per l’accesso e per la regolarizzazione, da comportare una condizione di continuo borderline tra regolarità e irregolarità per la gran parte della popolazione immigrata, a vantaggio di chi traeva profitto da quelle specifiche sezioni di mercato nero del lavoro.
Legge Foschi 1986
La legge Foschi fu la prima che si proponeva d garantire “a tutti i lavoratori extracomunitari legalmente residenti sul suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani”. La legge però faceva salve tutte le disposizioni concernenti “preferenza nazionale”, visto, autorizzazione al lavoro e permesso vincolato di soggiorno. La parte più complessa riguardava il reclutamento dall’estero e implicava un reticolo burocratico spesso inefficace per la regolarizzazione, che sistematizzò nuovamente lo strumento della sanatoria. Ormai non sfuggiva neanche più all’osservatore casuale la crescita dell’immigrazione e del lavoro irregolare mentre cresceva la politicizzazione della propaganda anti immigrazione, complice la nascita delle Leghe. La crescente xenofobia si tradusse in aperti episodi di razzismo fino all’omicidio di Jerry Masslo nel 1989, che sancì il risveglio dell’opinione pubblica, portando in piazza a Roma tra le 100mila e le 200mila persone nell’ottobre 1989, e l’urgenza di riformare la legge Foschi.
Legge Martelli 1990
La legge Martelli superò parte delle disposizioni concernenti autorizzazione al lavoro, permesso vincolato di soggiorno e preferenza nazionale. Inoltre, a questa legge si accompagnarono una grande sanatoria, la costituzione di un osservatorio permanente a Palazzo Chigi, la promessa di una maggiore partecipazione alla definizione di una normativa comunitaria e di una programmazione flessibile del flusso di immigrazione relativamente ai soli immigrati senza lavoro.
Questa impostazione, tuttavia, pur manifestando intenzioni di regolarizzazione, riconoscimento e ampliamento dell’accessibilità dei diritti, non prevedeva in alcun modo una forma di risoluzione per la gestione dei nuovi ingressi in senso strutturale una volta svuotato il totale di clandestini e irregolari. D’altro canto i minori vincoli all’ingresso (a partire da diritto d’asilo e ricongiungimento) e l’aumento di arrivi di immigrati sistematizzarono nuovamente la dinamica sanatoriale. Restava dunque un approccio sostanzialmente emergenziale e non di lunga durata. In sintesi, la legge Martelli migliorava in larga parte alcuni presupposti della possibilità di accesso e di regolarizzazione, tuttavia, i toni aperturisti non affiancati a un’azione realmente strutturale ma, piuttosto, a strumenti specifici e volti alla regolarizzazione dei presenti, furono facilmente contrastabili dall’opposizione politica, che si fece progressivamente più diffusa e che virò molte energie verso una maggiore centralità del sistema di espulsione, di nuovo in chiave emergenziale e fino ad arrivare, dopo la breve parentesi della Legge Turco Napolitano (1995), alla legge Bossi Fini e alla gestione che conosciamo oggi.
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Nella foto in alto – 8 agosto 1991, la nave Vlora attraccata ad una banchina del porto di Bari, piena di migranti albanesi (immagine di Luca Turi)