Il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita, dopo oltre due anni di colloqui condotti in Iraq e Oman e con l’iniziativa di mediazione “finale” della Cina di Xi Jinping, è un evento di portata potenzialmente notevole per gli equilibri regionali. Intervistato dalla Cnbc nei giorni successivi all’accordo, il ministro delle Finanze saudita, Mohammad Al Jadaan, ha addirittura annunciato la possibilità che Riyad torni “molto presto” a investire in Iran, mentre secondo Amwaj.media nei prossimi giorni i delegati iraniani incontreranno anche i loro omologhi emiratini. L’accordo costituisce un successo di Pechino che irrompe sulla scena come un attore di primo piano per le dinamiche di dialogo e pacificazione in Medio Oriente, in virtù di un posizionamento più equilibrato, meno compromesso rispetto a quello assunto negli ultimi decenni dagli Stati Uniti, che oggi proseguono nel loro disimpegno dalla regione. Cambiamenti che, si spera, possano portare a importanti novità in relazione a uno dei conflitti più sanguinosi e dimenticati del 21esimo secolo: la guerra in Yemen, nella quale proprio Arabia Saudita e Iran si affrontano, anche se non direttamente, sul campo di battaglia.
Le relazioni tra Riyad e Teheran sono tormentate sin dal 1979, ma avevano toccato il punto più basso a inizio 2016, con il ritiro degli ambasciatori e la rottura delle relazioni diplomatiche all’indomani degli assalti di alcuni manifestanti – in collera per l’esecuzione della pena capitale ai danni del religioso sciita Nimr Baqir al Nimr, nella provincia orientale saudita di Al Sharqiyya – all’ambasciata saudita di Teheran e al consolato di Mashhad. Alla rottura aveva poi fatto seguito la scelta “solidale” degli emiratini che avevano ridotto le relazioni con Teheran alla sola presenza di un incaricato d’affari ad Abu Dhabi.
Da quel momento, e in misura crescente dall’elezione di Trump nel gennaio 2017, quasi contestuale all’ascesa di Mohammad Bin Salman, la sensazione prevalente – corroborata dal succedersi di una serie di incidenti, di operazioni di intelligence militare e di varie schermaglie a bassa intensità – era stata quella di un continuo rischio di escalation tra la Repubblica Islamica e il blocco “informale” costituito da Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Gli Accordi di Abramo, siglati ad agosto 2020 – sette mesi dopo l’assassinio del generale Qassem Soleimani – tra Bahrein, Emirati Arabi Uniti ed Israele, con gli Stati Uniti di Trump come mediatori, sembravano preludere a una ulteriore spinta verso la polarizzazione regionale.
Se per l’Iran la ricerca di un riavvicinamento a Riyad era funzionale alla rottura del proprio isolamento internazionale – considerata l’influenza che i sauditi hanno anche su Paesi come Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Egitto e Giordania, per l’Arabia Saudita, come ha spiegato Mohammad Salami dell’International Institute for Global Strategic Studies, la motivazione principale risiedeva nella necessità di sbloccare la propria “paralisi” diplomatica in Iraq, Libano, Siria e Yemen, alimentata dalla forte influenza iraniana.
È proprio sul conflitto in Yemen che si attendono gli sviluppi più importanti ed è probabilmente in relazione ad alcune garanzie fornite su questo dossier che i due giganti regionali si sono seduti al tavolo cinese. “I sauditi hanno sempre posto come precondizione alla firma di questo accordo l’impegno iraniano alla de-escalation in Yemen. E secondo quanto riferitomi da Riyad è stata proprio Teheran ad accettare di fatto due elementi: interrompere l’invio di armi – missili e droni, anche se Teheran ha sempre negato – agli Houthi e fare pressione su questi ultimi affinché firmino un accordo coi sauditi che è sul tavolo da settimane”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Cinzia Bianco, esperta di Paesi del Golfo per lo European Council on Foreign Relations ed autrice con Matteo Legrenzi del volume Le monarchie arabe del Golfo: nuovo centro di gravità in Medio Oriente.
Va ricordato, infatti, che oltre a quelli tra Iran e Arabia Saudita erano in corso da tempo anche dei colloqui indipendenti tra quest’ultima e gli stessi ribelli Houthi, che controllano una parte dello Yemen, inclusa la capitale Sana’a. “Per questo motivo – prosegue Bianco – l’inviato speciale delle Nazioni Unite nei giorni scorsi si è recato in Iran, mentre quello americano ha fatto lo stesso in Oman e Arabia Saudita, così da concretizzare questo accordo. Ci si aspettano quindi sviluppi positivi su questo dossier, pessimisticamente entro un mese, anche perché in caso contrario non è da escludere che Riyad stracci l’intesa con Teheran”. Secondo Mohammad Salami, invece, la partita è un po’ più complicata: “Il conflitto in Yemen è in parte legato a problemi strutturali dei due Paesi che si basano su ideologie di partenza inconciliabili – spiega a Ilfattoquotidiano.it – L’Iran si percepisce come il difensore degli sciiti nel mondo e ciò si traduce nel fatto che considera un dovere ideologico e rivoluzionario il sostegno a queste comunità, anche a discapito degli interessi della nazione, anche se ciò implica un aumento delle sanzioni e della povertà diffusa. Ciò premesso, credo che Teheran non abbandonerà gli Houthi. È possibile che si renda disponibile a trovare una soluzione per la pace in Yemen, ma rimane l’intenzione di usare gli Houthi come carta negoziale con Riyad nel futuro”.
A leggere quanto riferito all’agenzia Irna dalla delegazione iraniana presso le Nazioni Unite, filtra un discreto ottimismo anche da parte di Teheran: “L’accordo con Riyad può accelerare gli sforzi per il rinnovo di un cessate il fuoco (collassato lo scorso ottobre, dopo che gli Houthi hanno chiesto ai sauditi di pagare gli stipendi non solo dei funzionari del loro governo, ma anche dei miliziani nelle aree sotto il loro controllo, di fatto quindi chiedendo loro di finanziare l’esercito che combattono, ndr) e stimolare un dialogo nazionale, così da formare un governo nazionale inclusivo in Yemen”.
Un’intesa in Yemen, tuttavia, potrebbe essere anche complicata da alcuni fattori che derivano dagli interessi specifici degli attori sul campo, da una parte il governo yemenita “in esilio” ad Aden e il Consiglio di Transizione del Sud – che secondo alcuni osservatori si sarebbero sentiti “marginalizzati” in questi colloqui – e dall’altra gli stessi Houthi, che godono del sostegno dell’Iran ma hanno una propria agenda. “L’Iran ha la capacità di incoraggiare gli Houthi verso una escalation, ma non è dato sapere che potere abbiano in direzione contraria, cioè verso una de-escalation”, ha riferito ad Axios Veena Ali-Khan, ricercatrice yemenita dell’International Crisis Group.
Le fa eco lo stesso Salami, il quale ha aggiunto che “anche se l’Iran può influenzare gli Houthi, non ha certo il potere di comandarli. Il loro movimento è indipendente da Teheran, specie riguardo alla possibilità di continuare le ostilità o porvi fine con un negoziato. Teheran e Riyad prima o poi arriveranno alla conclusione che gli Houthi ed il governo di Aden (che spinge per una divisione del Paese tra nord e sud, come era prima del 1990, ndr) sono due entità inseparabili e che il cammino dello Yemen deve passare per entrambi i gruppi”. Sarà quindi necessario – ha affermato Abubakr Al Shamahi su Al Jazeera – che tutti i gruppi coinvolti nel conflitto in Yemen vengano inclusi nel prossimo round negoziale, anziché esser chiamati a mettere la firma su accordi conclusi da altri, anche perché non va dato per scontato che un eventuale ritiro saudita dallo Yemen determini la fine delle ostilità.
Una sensazione in effetti rafforzata dalle dichiarazioni all’emittente Al Mayadeen di Abdulwahab al Mahbashi, membro dell’ala politica degli Houthi. “L’Arabia Saudita deve sapere che la nostra relazione con l’Iran non è di subordinazione, ma è una relazione che si basa sulla fratellanza islamica. La risoluzione del conflitto in Yemen – ha proseguito Al Mahbashi – può passare solo dai negoziati tra Sana’a e Riyad, non tra Riyad e Teheran. Anche se l’Arabia Saudita avesse firmato con l’Iran un accordo di difesa congiunta, o anche di alleanza militare, ciò non li proteggerebbe dalle nostre reazioni se dovesse continuare nell’aggressione ai nostri danni”.