Giorgia Meloni è contro il salario minimo. Durante il question time a Montecitorio di mercoledì, caratterizzato dal primo faccia a faccia con la nuova segreteria Pd Elly Schlein, la presidente del Consiglio ha spiegato perché a suo parere una paga base fissata per legge sia controproducente, sostenendo che “nel nostro sistema, un parametro di questo tipo rischierebbe di creare per molti lavoratori condizioni peggiori di quelle che hanno oggi”. “Io la penso così“, ha tagliato corto Meloni, aggiungendo: “Credo che sia molto più efficace estendere la contrattazione collettiva anche nei settori nei quali non è prevista e credo sia efficace tagliare le tasse sul lavoro”. Il pensiero della premier però viene sconfessato dall’esempio di uno dei Paesi che l’Italia potrebbe prendere a modello per l’introduzione del salario minimo: la Germania. La legislazione tedesca infatti, accanto a una paga base stabilita per legge e aggiornata da una commissione governativa (in cui sono rappresentati sindacati e datori di lavoro), preserva proprio il ruolo della contrattazione collettiva. Così, oltre ad un salario minimo unitario per tutti, ne esistono altri specifici e più alti per i diversi settori.
Al congresso della Cgil i leader dei partiti di opposizione hanno provato a costruire una possibile piattaforma per il futuro, inserendo tra i temi centrali proprio il salario minimo. Schlein lo ha scelto come argomento d’esordio in Parlamento e Giuseppe Conte ora propone “un patto tra le opposizioni”, ricordando che d’altra parte è “una battaglia da sempre del M5s”. La commissione Lavoro della Camera esaminerà la prossima settimana tre proposte sul salario minimo: due firmate dai deputati Pd Serracchiani e Laus, la terza firmata dallo stesso Conte. Il M5s con l’ex ministra Nunzia Catalfo un primo ddl in materia l’aveva presentato già nel 2014, poi aggiornato e riproposto nella primavera 2021. In Italia però la discussione è rimasta al palo e uno degli argomenti da sempre utilizzati dai detrattori è quello rilanciato proprio dalla premier Meloni: il rischio che il salario minimo diventi un’occasione per i datori di lavoro per sfuggire alla contrattazione collettiva e applicare una paga più bassa. Questo rischio esiste già, perché l’Italia non ha una legge sulla rappresentanza sindacale per frenare i contratti pirata: l’articolo 39 della Costituzione, che prevedeva la registrazione dei sindacati in cambio della facoltà di stipulare contratti collettivi validi per tutti gli appartenenti alla categoria, è inattuato. E così possono proliferare accordi firmati da sigle minori, fittizie o “di comodo” che prevedono paghe da fame.
Nel frattempo in Germania il Mindestlohn, introdotto già 8 anni fa, è stato alzato a 12 euro l’ora lo scorso giugno dal governo Scholz. I lavoratori tedeschi però godono in molti settori di un salario minimo più alto: per il personale di assistenza negli ospizi è di 15 euro, nel settore della pulizia degli edifici è salito a 13 euro, in quello dell’edilizia è fissato a 12,85 euro. La legge tedesca sulla contrattazione collettiva prevede infatti all’articolo 5 che, al verificarsi di determinate condizioni, il ministero federale del Lavoro può dichiarare un contratto collettivo come generalmente vincolante per tutta una categoria di lavoratori. In altre parole, il contratto collettivo stipulato tra le organizzazioni sindacali e datoriali più rappresentative di un settore può essere esteso erga omnes. Così, in Germania il benchmark per ogni comparto diventa il salario minimo orario previsto dal contratto collettivo leader nel settore: sul sito del ministero del Lavoro è perfino possibile scaricare un elenco dei contratti collettivi dichiarati vincolanti per tutti. E la presenza di una paga base non impedisce di certo le battaglie sindacali: a fine febbraio, ad esempio, i dipendenti pubblici tedeschi hanno scioperato in massa per chiedere un adeguamento degli stipendi all’inflazione.
La legge tedesca quindi tutela e valorizza la contrattazione collettiva. E un’indicazione in tal senso è presente anche nelle proposte di M5s e Pd. Il ddl Catalfo puntava dichiaratamente a sostenere la contrattazione collettiva e non a sostituirla. Il testo prevedeva che per essere “sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato”, la retribuzione non può essere inferiore a quella prevista dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore di riferimento e stipulato “dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. Anche il ddl del Pd rilanciato da Nicola Zingaretti nel 2019 prevedeva di garantire l’applicazione dei contratti collettivi nazionali, secondo il principio per cui la giusta retribuzione deve essere quella stabilita dalla contrattazione collettiva. Il salario minimo invece è una garanzia nei settori in cui manca una disciplina contrattuale di riferimento.
L’esecutivo tedesco ha appunto sottolineato che l’esigenza di un salario minino unitario valido per tutti deriva dal fatto che sempre più lavoratori sfuggono al tetto dei contratti collettivi. In Italia in questo momento non è possibile calcolare la percentuale di copertura dei ccnl. L’ufficio di statistica tedesco, invece, ha potuto stimare che nel 2022 il 47% di tutti i rapporti di lavoro non rientrava nelle tariffe negoziali. Da qui la necessità di una soglia di dignità al di sotto della quale non si debba scendere, che per la legge tedesca deve essere adeguata regolarmente -seguendo parametri come l’inflazione – da una Commissione governativa, in cui sono rappresentati i sindacati e i datori di lavoro: è previsto che i futuri aumenti tariffari, oltre i 12 euro minimi, siano di nuovo decisi con lo stesso meccanismo. L’obiettivo è appunto tutelare il mercato del lavoro tedesco dal dumping salariale e concorrere a ridurre il ricorso a manodopera con contratti brevi (anche se, va ricordato, in Germania esistono i mini-job da 520 euro mensili a orario ridotto).
Il rischio paventato da Meloni che il salario minimo possa creare “per molti lavoratori condizioni peggiori di quelle che hanno oggi” viene inoltre smentito delle evidenze emerse dalla ricerca economica, che hanno dimostrato negli anni come l’aumento del salario minimo non riduca l’occupazione. L’economista David Card ha vinto il premio Nobel proprio grazie ai suoi studi condotti nel 1994 con Alan B. Kruger sull’impatto del salario minimo nell’industria dei fast food in New Jersey e Pennsylvania: la loro ricerca ha dimostrato che l’aumento della paga non ha ridotto il livello occupazionale. Le evidenze empiriche dimostrano che lo stesso è accaduto in Germania, dove nel frattempo sono aumentate le retribuzioni. In più, alcuni economisti che studiano i meccanismi dietro il funzionamento delle economie capitalistiche hanno evidenziato che salari troppo bassi non fanno che alimentare un circolo vizioso, incentivando le aziende a puntare su produzioni a basso valore aggiunto: al contrario, aumentare i salari minimi spinge ad adottare modelli produttivi più efficienti.
Inoltre, la premier Meloni dimentica che l’Italia è un Paese in cui negli ultimi 30 anni i salari sono cresciuti appena dello 0,3 per cento: un incremento infinitesimale rispetto agli aumenti di cui hanno goduto i lavoratori francesi e gli stessi tedeschi (+33 per cento). Per questo da tempo sociologi, economisti ed esperti chiedono l’introduzione anche in Italia di un salario minimo legale per tutelare il potere di acquisto dei lavoratori (compresi quelli non coperti dai contratti collettivi) e mettere un freno al dumping salariale. Accanto al salario minimo, serve una legge per far valere i contratti collettivi “principali” di ogni settore per tutti gli occupati di quel comparto. Peraltro, è quanto previsto dalla direttiva europea del 25 ottobre 2022. “Tutto però deve essere accompagnato da un enorme aumento della capacità di controllo del rispetto dei contratti stessi e dei loro minimi”, aveva spiegato a ilfattoquotidiano.it Michele Raitano, ordinario di Politica economia alla Sapienza. Ovviamente, per evitare rischi di effetti distorsivi, oltre alle norme servono sempre i controlli.