A distanza di un ventennio dalla Riforma Tremonti dell’aprile 2003 la destra italiana ci riprova e annuncia un nuovo capitolo di quella che, con efficace espressione, è stata definita da Vincenzo Visco (insieme con Anna Faggionato) in un recentissimo libro “la guerra delle tasse”. Una guerra che, dall’ascesa di Berlusconi in politica, il fronte del centrodestra – ora solo destra – ha combattuto con vittorie diciamo parziali, anche se per gli interessati molto significative.
Ora, il viceministro con delega al fisco Maurizio Leo ha annunciato, e anche anticipato alla stampa, un nuovo e corposo progetto di riforma fiscale complessiva.
Nel 2003 il centrodestra approvò in Parlamento una legge delega sul fisco della quale era protagonista assoluto il Ministro delle Finanze, prof. Giulio Tremonti. L’obiettivo ambizioso era quello di ridisegnare il sistema fiscale italiano, dopo la grande riforma del 1973. Le novità introdotte si annunciavano numerose e rilevanti. Guardando solo all’Irpef, l’art. 3 recitava che le aliquote, allora 5, sarebbero state ridotte a due: la prima del 23% fino a 100mila euro e la seconda del 33% sopra i 100mila euro. Si trattava di una vistosa riduzione delle tasse soprattutto per i redditi sopra i 70 mila euro, la cui aliquota ordinaria era del 45%, mentre l’aliquota minima, il 23%, rimaneva inalterata. Una riforma che nella sostanza riduceva le tasse per i redditi elevati.
Erano i tempi in cui a livello internazionale l’idea della flat tax viaggiava a vele spiegate, soprattutto tra i paesi ex-socialisti. Il prof. Tremonti, che ha argomentato la sua guerra alle tasse attraverso un’ampia pubblicistica, tra cui suggerisco per gli amanti del genere noir fiscale il libro Lo Stato criminogeno, sembrava poter realizzare anche in Italia il progetto di un turbo-liberismo. Allora il debito pubblico era di appena 1.371 miliardi, pari al 100,4% del prodotto interno lordo.
Dopo 18 mesi la delega arrivò a scadenza ma la parte relativa alla doppia aliquota Irpef non venne approvata. La ragione? Non politica ma tecnica: la sua insostenibilità finanziaria. La riforma avrebbe prodotto una voragine nei conti pubblici e quindi la parte sulla riduzione dell’Irpef venne abbandonata. Continuò invece negli anni successivi il percorso più ordinario della riduzione delle aliquote. L’ultimo aggiustamento è stato fatto dal Governo Draghi che ha alleggerito il carico fiscale per i redditi tra i 40 e 60 mila euro, riducendo a quatto le aliquote dell’Irpef.
Ora, a quanto si apprende dalle anticipazioni di stampa, il viceministro Leo vuole riformare l’Irpef riducendo le aliquote della nostra imposta sul reddito a tre, che si sa, è il numero perfetto. Avrà più fortuna l’esperto fiscalista dove ha fallito il professore? Poiché la delega avrà una durata piuttosto lunga, non mancheranno occasioni per valutare le scelte governative.
Qui mi preme evidenziare un punto. Oggi il debito pubblico italiano, complice anche la pandemia, è salito alla cifra astronomica di 2.762 miliardi, pari al 145% del prodotto interno lordo. Guardando alle cifre assolute, che sono quelle che contano, si tratta di un aumento del 100% nel giro di vent’anni, un periodo tutto sommato abbastanza breve e segnato anche dalla stretta della disciplina fiscale europea. La montagna del debito è sempre lì, anzi è diventata notevolmente più alta e scoscesa.
Questo aspetto non sembra preoccupare i protagonisti della Melonieconomics che promettono ancora, un po’ fiacchi però, di attuare una grande riforma fiscale per razionalizzare, tradotto ridurre, le tasse agli italiani. Però, come insegna il fallimento della riforma Tremonti del 2003, qualche aggiustamento va fatto. Ecco allora la proposta, piuttosto vecchiotta, del viceministro di finanziare le riduzioni che derivano dalla revisione delle aliquote con l’eliminazione di alcune detrazioni e deduzioni fiscali. Sempre quelle inopportune ed improprie, naturalmente.
Questa proposta di ridurre l’Irpef tagliando gli sconti fiscali per evitare di allargare la voragine del debito è quella che da almeno vent’anni si ritrova nei programmi di Forza Italia. Poiché si tratta di una partita di giro tra contribuenti, è chiaro che non ha mai scaldato i cuori degli elettori. La destra afferma sempre che non metterà le mani nelle tasche degli italiani. Le prime indiscrezioni dicono invece il contrario, nel senso che le tasche di qualcuno verranno alleggerite a favore di altre.
L’eliminazione delle tax expenditures, quali e quanto si vedrà perché il viceministro ancora conti non ne ha fatti, viene presentata come la vera soluzione ai problemi dell’Irpef ma si tratta di una minestra riscaldata, e forse rancida.
La malattia mortale dell’Irpef, come ormai sanno anche i muri, non sono le aliquote ormai portate al minimo sindacale, tenuto conto delle dimensioni della spesa pubblica, ma piuttosto l’erosione dell’imposta e la sua evasione. L’Irpef è stata ferita dai paradisi fiscali creati dalla politica per categorie elette di contribuenti e dall’evasione fiscale, i paradisi fiscali illegali che ancora oggi, come ieri, fanno poco onore al nostro paese, per usare la retorica sovranista.
Possiamo, all’ingrosso, stimare tra erosione ed evasione un mancato gettito tra i 100 e i 120 miliardi di euro che, se adeguatamente contenuto, potrebbe risolvere tutti i problemi della finanza pubblica, che non sono solo il debito ma anche il sottofinanziamento di molti servizi pubblici come sanità, scuola, sicurezza e così via. Ma non sembra questa la via indicata dal super esperto fiscale, ora viceministro.
Possiamo dire che nella sua distopia, il prof. Tremonti era da un punto di vista intellettuale un gigante perché voleva trasformare veramente il sistema, pur in una direzione neoliberista che personalmente considero una sciagura. L’avvocato e fiscalista Leo invece si limita a spacciare per una riforma epocale quelli che sembrano modesti aggiustamenti, qualcosa che serve solo per riempire le cronache giornalistiche per i mesi a venire e a solleticare il suo protagonismo (o narcisismo) fiscale.
Purtroppo per lui, ma bene per tutti noi, il debito pubblico non può più essere usato come bancomat elettorale. Anche perché l’Europa sui conti pubblici ci osserva in maniera non proprio benevola, e a ragione.