Un film già visto. Stessa sceneggiatura, stesse scenografie, diversi gli interpreti. Non tutti, a dire la verità, vista la costanza presenza di un attore non protagonista: l’informazione e i media. Un film che inizia con il solito “colpo di scena”: il corpo morto riverso a terra sopra un tappeto di sangue ancora caldo. Parte l’attenzione mediatica: perché è successo? Chi sarà l’assassinio? Chi è il colpevole? Poi lo screenplay prevede alcuni flashback che, dopo pochi minuti, ti fanno avere la stessa reazione che, di solito, produciamo di fronte ai remake.

Il film si intitola “morte di una banca annunciata” ed è nelle sale da una settimana. Partiamo dai fatti. La settimana scorsa ha dichiarato default la Svb (Silicon Valley Bank), banca americana che finanzia start up della economia innovativa e, dopo mesi di silenzio e di disattenzione ai problemi della malafinanza da parte dell’informazione mainstream (l’attore non protagonista), partono edizioni straordinarie, “speciali di approfondimento” e titoli a nove colonne.

Un’informazione che, tranne pochi casi, si sofferma sull’effetto scandalo piuttosto che concentrarsi sulle cause: quella banca (e qualcun’altra la seguirà) è morta per effetto della ottusa politica aggressiva di aumento dei tassi che da circa dodici le banche centrali stanno adottando per frenare l’inflazione senza preoccuparsi degli ingenti danni che questa manovra sta procurando al sistema economico in generale.

Anche uno studente al primo anno di economia sa che per combattere l’aumento dei prezzi occorre aumentare i tassi di interesse. Ma avremmo sicuramente risparmiato gli stipendi d’oro dei vari governatori e manager delle istituzioni finanziarie se ci fossimo limitati a questa scolastica deduzione. Forse è il caso di ripetere che l’aumento dei tassi mitiga l’inflazione perché drena liquidità (il credito è di difficile accesso e costa di più), meno liquidità significa meno consumi (non abbiamo soldi per poter andare al ristorante) e di conseguenza il sistema entra in recessione. E’ chiaro che con l’aumento dei tassi scende l’inflazione, ma si produce un disastro totale. Anche per le banche. Il meccanismo è semplice.

Al fine di creare logico profitto per remunerare il capitale investito dai soci, ogni banca cerca di impiegare le risorse finanziarie che ha raccolto per ottenere rendimenti elevati. La banca per questa ragione investe anche in titoli. Siano essi obbligazioni (la parte principale) oppure azioni oppure ancora partecipazioni dirette. Non occorre essere necessariamente Warren Buffett per sapere che il prezzo di un’obbligazione è legato all’andamento dei tassi di interesse. Più precisamente, all’aumentare dei tassi di interesse, il prezzo del titolo obbligazionario scende e viceversa. Perché?

Vediamo un esempio che chiarisce questa relazione inversa. Ipotizziamo di comprare oggi un’obbligazione che presenta una cedola annua del 2%, valore nominale e prezzo di acquisto pari a 100. Il 2%, che l’obbligazione renderà ogni anno, è il tasso di interesse di mercato per la stessa scadenza dell’obbligazione. Immaginiamo ora che la banca centrale europea decida di aumentare i tassi al 3,5%. La nostra obbligazione continuerà a pagarci il 2% annuo in quanto stabilito dal prospetto del titolo. Ma questa remunerazione è più bassa del tasso del 3,5%. Molti allora vorranno vendere il titolo con cedola al 2%: dunque l’offerta (del titolo al 2%) crescerà e, a parità di domanda, il prezzo dell’obbligazione scenderà.

Riassumendo, i tassi sono scesi e il prezzo dell’obbligazione è salito: si tratta, in sostanza, del mercato che ritrova il suo assetto. Ecco allora che l’aumento dei tassi sul mercato statunitense di oltre quattro punti percentuali in pochi mesi ha fatto registrare la peggior perdita del mercato obbligazionario dal 1842, ragion per cui Svb (come tutte le banche che hanno obbligazioni nel loro attivo) ha visto supersvalutare il proprio patrimonio, al punto di essere sceso al di sotto dei livelli minimi di capitalizzazione necessari per svolgere l’attività di intermediazione (raccogliere denaro per prestarlo a chi lo richiede).

A tal fine, per ritornare a garantire livelli di patrimonializzazione sufficienti, Svb aveva bisogno di liquidità e ha dovuto mettere in vendita 2,5 miliardi di dollari di sue azioni che nessuno ha comprato. Cosa succede però se si sparge la voce che una data banca è in difficoltà e potrebbe fallire a breve? Naturalmente, molti clienti si affretteranno a ritirare i propri soldi. Nello stesso momento la banca si trova in difficoltà sull’interbancario perché le altre non si fidano più e non prestano o lo fanno a tassi molto elevati. Questo doppio effetto può generare una crisi di liquidità costringendo la banca a fare cassa per riequilibrare la situazione. Se si viene però a sapere che la banca è costretta a vendere – o svendere – titoli per fare cassa, le voci sulle sue difficoltà si rafforzeranno spingendo altri clienti a ritirare i propri soldi, in una spirale che si auto-alimenta.

Fallimento! Ed ecco, così come avvenuto nel 2008 (ricordiamo che fino a poche ore prima del fallimento di Lehman Brothers pochi pensavano e scrivevano dei crack finanziari) che si scatena l’inferno mediatico. Ma il morto era già in mezzo alla casa. Mai un articolo quando lo stesso era in coma. Dall’altra parte del mondo, per motivi completamente diversi, si verifica il crollo delle azioni di Credit Suisse con necessità di intervento della banca centrale svizzera e soliti titoli allarmati dei principali quotidiani.

Ma in quei titoli (e anche negli editoriali) tanta confusione e ignoranza confondendo le mele con le pere. Perché l’elemento scatenante della crisi di Credit Suisse è stata una dichiarazione del presidente della Saudi National Bank, primo azionista della banca svizzera, in merito al fatto che, per mancanza di fiducia, non avrebbero iniettato nuova liquidità in caso di ricapitalizzazione di un istituto che la vigilanza svizzera aveva già condannato diverse volte per mala gestio: fondi venduti con raggiro assicurando un inesistente “capitale garantito” e riciclaggio di 14,6mld di franchi svizzeri di proprietà di alcuni narcos. Ma qui si tratta di inefficienze nella gestione dei rischi e l’aumento dei tassi non c’entra assolutamente.

Conclusione? Di cosa dobbiamo preoccuparci? Teniamoci cara la rigidità della Bce sugli stress test delle banche europee, al cui confronto la eccessiva deregulation americana sembra Heidi contro Rambo: solo così probabilmente potremo limitare i danni perché anche le nostre banche hanno obbligazioni in portafoglio e potrebbe vedere il loro patrimonio super svalutato per effetto di un ulteriore aumento dei tassi che, invece, la banca centrale dovrebbe assolutamente evitare. Ma niente da fare: ieri l’altro la Bce ha alzato i tassi di altri 50 basis point. Forse il fallimento di una sola banca americana non basta. Occhi aperti.

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