Nella mente di Giorgia Meloni il salario minimo è un cavallo di Troia per ridurre i diritti dei lavoratori. La premier lo ha ribadito anche dal palco del congresso della Cgil: “Temo che la fissazione per legge diventi non una tutela aggiuntiva rispetto alla contrattazione collettiva ma sostitutiva e questo finirebbe per fare un altro grande favore alle grandi concentrazioni economiche che hanno come obiettivo rivedere al ribasso i diritti dei lavoratori”. Si tratta della storica posizione di Confindustria (che peraltro fino a un paio di anni fa era anche quella del sindacato di Maurizio Landini) opportunamente rivista per tirare in ballo lo spauracchio delle “grandi concentrazioni economiche”, le stesse che secondo il centrodestra farebbero man bassa delle spiagge italiane se le mettessimo all’asta. Teoria economica e analisi empiriche dicono però che introdurre un minimo legale – cosa che hanno fatto 22 Stati europei su 27 e altri 140 circa nel mondo – porta con sé molti benefici: riduzione della povertà lavorativa, della disuguaglianza salariale e del divario di genere, nonché aumento della produttività. Alcuni studi mostrano una redistribuzione dai consumatori che possono permetterselo ai lavoratori a basso salario. Va da sé che, da solo, il salario minimo non è una panacea contro ogni forma di lavoro povero: va affiancato da strumenti di sostegno per chi lavora troppo poche ore (o pochi mesi all’anno) per avere un reddito adeguato e da una efficace vigilanza sul rispetto dei contratti.
Usa: effetti positivi anche per chi guadagna più del minimo – Il Nobel David Card a inizio anni Novanta ha analizzato gli effetti del salario minimo sul mercato del lavoro degli Stati Usa. Confrontando l’occupazione nei fast food del New Jersey e della Pennsylvania ha trovato che nel primo Stato, dove il salario minimo era appena salito sopra i 5 euro l’ora, i dipendenti full-time erano addirittura aumentati e i prezzi non erano saliti. Nel 2014 la ponderosa meta-analisi What Does the Minimum Wage Do?, incrociando i risultati di oltre 200 diverse pubblicazioni, ha concluso che moderati aumenti incrementano sostanzialmente i guadagni di chi è alla base della piramide di distribuzione dei redditi e riducono la disuguaglianza. Sono poi emersi piccoli effetti positivi (spillover) anche sui salari di chi guadagna poco più del minimo, in particolare le donne. Secondo gli autori, Dale Belman e Paul J. Wolfson, gli effetti negativi sull’occupazione sono risultati troppo piccoli per essere rilevabili statisticamente. Secondo diverse analisi successive, tra cui una del Congressional budget office, portare il minimo orario federale a 15 dollari l’ora porterebbe 1,3 milioni di persone oltre la soglia di povertà.
Gran Bretagna: aumento della produttività – Uno studio di Rebecca Riley and Chiara Rosazza Bondibene per il National institute of economic and social research inglese ha mostrato che l’introduzione del salario minimo (1999) ha aumentato la produttività delle aziende, che hanno risposto all’aumento del costo del lavoro con efficientamenti organizzativi e maggiore formazione. Non c’è stata invece riduzione della forza lavoro o sostituzione dei lavoratori con maggiore automazione. Conclusioni in linea con quelle di ricerche precedenti come quella di Marian Rizov e Richard Croucher (2012) che ha mostrato un incremento della produttività in tutti i settori a basso salario del Regno Unito e in particolare nelle imprese più grandi.
Francia: impatto positivo sugli accordi collettivi – In Francia la disuguaglianza salariale è stata contenuta grazie a un buon salario minimo legale affiancato da minimi negoziati a livello centrale o di settore. Un paper del 2016 di Erwan Gautier, Denis Fougère e Sébastien Roux della Banque de France ha trovato che il salario minimo non “spiazza” la contrattazione, anzi ha avuto un effetto positivo e significativo sulla frequenza degli accordi collettivi su aumenti salariali a livello di settore e che un aumento di un punto percentuale del salario minimo reale aumenta di 2-3 punti la probabilità di osservare un nuovo accordo salariale in una certa industria. Se un settore ha almeno un minimo contrattuale (ce ne sono diversi a seconda di anzianità, esperienza, formazione…) sotto il minimo legale, risulta molto più probabile che si arrivi alla firma di un nuovo accordo collettivo.
Germania: “Con minimi più alti il lavoro si sposta nei settori più produttivi” – In Germania il salario minimo, introdotto otto anni fa, è stato portato lo scorso ottobre a 12 euro l’ora: +25% rispetto a un anno prima. Il centro di ricerca tedesco sull’economia del lavoro Iza in uno studio del 2019 ha trovato che in seguito ai precedenti ritocchi al rialzo non c’è stata evidenza di un aumento della disoccupazione e i datori di lavoro non hanno sostituito i lavoratori full-time con impiegati a tempo parziale. L’economista ex Mit Simon Jäger, numero uno del centro, ha detto alla Faz di non aspettarsi nemmeno ora impatti negativi sull’occupazione, mentre è probabile una “riallocazione del lavoro dalle imprese meno produttive” come piccoli ristoranti e negozi, “a quelle più produttive, come la manifattura, che si possono permettere di pagare stipendi più alti. Se sia un bene o un male per la società è da vedere. La domanda è, fino a che punto un’impresa dovrebbe continuare a esistere se non è in grado di pagare un salario minimo?”. L’alternativa è migliore per il sistema economico nel suo complesso, secondo Jäger: “Se per le imprese è troppo facile aver successo con modelli di business basati sui bassi salari, troppe risorse vengono allocate a settori meno produttivi, mentre quelli produttivi hanno carenza di lavoratori. Un salario minimo più alto aiuta a evitare questa inefficienza“. Un altro paper di Marco Caliendo e Linda Wittbrodt evidenzia che il salario minimo ha avuto un significativo effetto negativo sul wage gap tra uomini e donne.
Ungheria: redistribuzione del reddito da consumatori a lavoratori – Péter Harasztosi del Joint research center della Commissione Ue e Attila Lindner dell’University College London hanno pubblicato nel 2018 un paper che si chiede Chi paga per il salario minimo?. Il caso analizzato è quello dell’Ungheria. La maggior parte delle imprese risulta aver reagito all’aumento del salario minimo incrementando le paghe e non riducendo i posti. Come conseguenza hanno visto salire i costi che sono stati in gran parte (75%) assorbiti da maggiori prezzi al consumo e per il 25% sostenuti dagli imprenditori. Questo è ovviamente più semplice nei servizi e nei settori non esposti alla concorrenza internazionale, come le costruzioni, perché quando i prodotti sono venduti all’estero un aumento dei prezzi si traduce in minore competitività. La conclusione è che in generale il minimo legale redistribuisce reddito dai consumatori ai lavoratori con paghe basse senza ridurre l’efficienza.
Brasile: meno disuguaglianza – Un articolo uscito lo scorso dicembre sulla American economic review arriva alla conclusione che l’aumento del 128% del salario minimo reale in Brasile tra 1996 e 2018 ha determinato il 45% del forte calo nella disuguaglianza salariale registrato nello stesso periodo. Pur avendo avuto, peraltro, effetti positivi anche sulle fasce salariali più alte (chi offriva stipendi subito sopra il minimo li ha alzati per mantenere il proprio posizionamento). Non c’è stato aumento della disoccupazione, bensì un effetto trasferimento: le aziende a bassa produttività, i cui margini di profitto sono calati, hanno ridotto le ricerche di nuovi lavoratori facilitando il recruiting da parte delle concorrenti più produttive e in grado di pagare di più.