In caso di vero e proprio salvataggio bancario (bail in) i primi soggetti coinvolti sono azionisti e possessori di bond subordinati (prodotti finanziari ibridi a metà strada tra azioni e obbligazioni). In seconda battuta le perdite si scaricano sulle obbligazioni ordinarie e, infine, sulla parte dei depositi che superano la quota garantita. Solo in ultimissima e residuale istanza a farsi carico delle perdite potrebbe essere lo Stato. Nel 2008 il salvataggio di Ubs che costà allo stato svizzero 6 miliardi di franchi
Potrebbe accadere davvero? Il fallimento di una delle più antiche, grandi e blasonate banche europee? Negli ultimi giorni il timore per un vero e proprio crac di Credit Suisse si è fatto più concreto. Mercoledì la banca centrale svizzera è intervenuta a sostegno dell’istituto mettendo a disposizione liquidità per 50 miliardi di franchi svizzeri (51 miliardi di euro). Ma venerdì il titolo del gruppo elevetico ha ripreso a precipitare in borsa, chiudendo a – 8%. Le quotazioni dei bond, che potrebbero essere coinvolti in un salvataggio, segnalano come il mercato non sia convinto. Si tratta di obbligazioni per un controvalore complessivo di almeno 76 miliardi di franchi svizzeri. La liquidità approntata dalla banca centrale regala tempo ma non risolve i problemi. Il principale è la fuga di depositi, iniziata da tempo ma drammaticamente accelerata negli ultimi mesi e poi ancora di più negli ultimi giorni. E così si inizia a fare i conti anche con gli scenari peggiori. Sarà un weekend di febbrili trattative e difficili decisioni. Secondo quanto riferisce l’agenzia Reuters sono già programmati incontri di diversi che riferiranno al responsabile della banca Dixit Joshi sulle opzioni a disposizione.
La Banca centrale europea ha iniziato a raccogliere informazioni dalle banche sotto la sua vigilanza (ossia quelle di maggiori dimensioni)per conoscere le loro esposizioni verso Credit Suisse. In sostanza è una ricognizione dell’entità dei legami finanziari con la banca svizzera, più sono consistenti più sale il rischio di essere trascinati in un’eventuale caduta. Dopo una prima ricognizione la Bce ha affermato che l’esposizione nel complesso è “limitata e non c’è concentrazione”. In ogni caso, ha spiegato ieri il vicepresidente della Bce Luis De Guindos “abbiamo gli strumenti per fornire liquidità nel caso servissero”. A sua volta il Tesoro americano sta esaminando l’esposizione della banche statunitensi. JP Morgan, Bank of America e Citigroup hanno comunicato alle autorità che le loro esposizioni sono minime. In Europa la francese Bnp Paribas si è mossa per ridurre la sua esposizione bloccando le operazioni su derivati che hanno come controparte la banca svizzera. Lo stesso starebbe facendo Deutsche Bank e Société Générale oltre alla britannica Hsbc. Sinora in Italia l’unica banca ad aver emesso una comunicazione ufficiale in merito è il gruppo Cassa di Ravenna (Cassa di Ravenna spa, Banca di Imola spa e Banco di Lucca e del Tirreno spa). Nella nota si afferma che le società del gruppo “non hanno esposizioni finanziarie verso tali controparti, né hanno collocato alcun loro prodotto alla propria clientela” con riferimento alle recenti notizie sul fallimento delle banche Usa Silicon Valley Bank e Signature Bank, nonché delle difficoltà della svizzera Credit Suisse.
Il bilancio del colosso elvetico riporta attivi per 531 miliardi di franchi svizzeri. Le dimensioni del bilancio dell’istituto si sono molto contratte in questi anni di crisi, nel 2021 gli attivi ammontavano a 755 miliardi, nel 2020 a 819 miliardi. Il fatto che la banca si sia molto ridimensionata è paradossalmente un bene, visto che il suo peso nel sistema bancario è meno imponente. A bilancio ci sono prestiti per 276 miliardi, circa la metà erogati a controparti svizzere. I depositi, a fine 2022, ammontavano a 234 miliardi. Oltre al deflusso dei fondi, la banca deve fare i conti con e con la scarsa redditività di alcune divisioni di business.
Tra le ipotesi che rimbalzano tra Zurigo e Berna in queste ore frenetiche c’è anche quella dello “spezzatino” con la separazione delle divisioni della banca che verrebbero poi vendute o quotate separatamente. L’altro scenario è quello di una fusione con l’altro big elvetico, ossia Ubs, banca che sta accogliendo molti dei depositanti in fuga da Credit Suisse. Entrambi gli istituti hanno però espresso la loro contrarietà a “nozze forzate” e l’operazione potrebbe incappare in qualche problema di regolamentazione anti trust. Che non pare però insormontabile. Lo scenario più catastrofico è quello della messa in liquidazione vera propria della banca sotto l’egida della banca centrale svizzera che potrebbe comunque garantire i depositi limitando i danni. Si tratterebbe di una strada rischiosa, anche da un punto di vista sociale e politico viste anche le possibili ricadute sui contribuenti svizzeri. Come accadde nel 2008 quando ad essere salvata fu invece Ubs, anche grazie ai 6 miliardi di franchi stanziato dal governo.
In caso di vero e proprio salvataggio bancario (bail in) i primi soggetti coinvolti sono azionisti e possessori di bond subordinati (prodotti finanziari ibridi a metà strada tra azioni e obbligazioni ma che comunque sono chiamati ad assorbire le perdite). Il capitale della banca ammonta a 35 miliardi di franchi. Se questo non basta, in seconda battuta, le perdite si scaricano sulle obbligazioni ordinarie e, infine, sulla parte dei depositi che superano la quota garantita. Solo in ultimissima e residuale istanza a farsi carico delle perdite potrebbe essere lo Stato.
Come in Europa e negli Stati Uniti, anche in Svizzera i depositi bancari sono assicurati. La garanzia copre totalmente i depositi fino a 100mila franchi (circa 100mila euro). Per la parte che supera questa somma si passa alla procedura fallimentare con la possibilità di recuperare le somme con la procedura fallimentare. Va detto che storicamente Credit Suisse è una banca specializzata nell’amministrare grandi patrimoni, la quota di conti con somme considerevoli e oltre la soglia di garanzia potrebbe quindi essere superiore alla media. Chi sicuramente ha molto da perdere, e ha già perso, sono i grandi azionisti della banca. In testa ci sono investitori mediorientali. La quota maggiore (9,9%) fa capo alla Saudi national bank. Un altro 5% appartiene a Quatar holding, e un 4,9% ad Olayan group entità finanziaria riconducibile all’Arabia Saudita. Proprio la dichiarazione del presidente della Banca nazionale saudita Ammar Al Khudairy sulla non disponibilità a versare altri soldi nel gruppo svizzero, ha innescato il tracollo di mercoledì scorso che ha portato all’intervento della banca centrale svizzera. Sulla vicenda non sono mancate ricostruzioni secondo cui Riad avrebbe voluto affondare la banca su imboccata di Cina e Russia con cui il paese ha mantenuto stretti legami. Rafforzatisi nelle ultime settimane dopo il disgelo con lo storico nemico, l’Iran, orchestrato da Pechino.