“Nel mio paese i cittadini sono registrati con nome, cognome e patronimico" spiega la signora Skirdova a ilfattoquotidiano.it. Nel momento di effettuare il passaporto, però, l'Ucraina non indica il patronimico. Di conseguenza “tutti i miei documenti d’identità italiani prodotti dal ministero dell’Interno non contengono il patronimico, perché per legge devono riscrivere i dati presenti nel passaporto”. Quando però ha presentato domanda di cittadinanza italiana tramite la piattaforma web del ministero dell’Interno ha dovuto inserire il patronimico come secondo nome, mentre non ha potuto inserirlo nei moduli degli altri documenti perché non lo riportano. E questo ha bloccato tutto
Lidiya Skirdova è una donna ucraina residente da 22 anni in Italia, dove si è anche sposata. Da tre anni chiede la cittadinanza italiana per naturalizzazione senza successo, per un insanabile corto circuito burocratico del nostro ministero dell’Interno legato alla sua piattaforma web di richiesta. “In Ucraina all’atto di nascita i cittadini sono registrati con nome, cognome e patronimico, ovvero l’identificativo del rapporto di paternità della persona” spiega la signora Skirdova a ilfattoquotidiano.it. Nel momento di effettuare il passaporto, però, l’Ucraina non indica il patronimico come secondo nome, accanto al nome di persona, omettendo completamente questo dato personale. In conseguenza “tutti i miei documenti d’identità italiani prodotti dal ministero dell’Interno italiano tramite gli sportelli anagrafe e le Questure – chiarisce Lidiya Skirdova – non contengono il patronimico, perché per legge devono riscrivere i dati personali presenti nel passaporto”. Quando però Lidiya Skirdova ha presentato domanda di cittadinanza italiana tramite la piattaforma web del ministero dell’Interno ha dovuto inserire il patronimico come secondo nome, nella compilazione del modulo legato al suo certificato di nascita – dove il patronimico è indicato – mentre non ha potuto inserirlo nei moduli degli altri documenti (passaporto, carta d’identità etc…) perché non lo riportano. “Questo ha prodotto un’anomalia nella mia domanda – spiega Skirdova a ilfattoquotidiano.it – e da lì si è tutto bloccato”.
Nonostante il fatto sia banale, descritto dalla stessa signora nelle note, al momento di analizzare la sua richiesta di cittadinanza italiana infatti la Prefettura di Pistoia è stata irremovibile: o la signora si fa mettere il patronimico nel passaporto o nella carta d’identità, oppure per il ministero dell’Interno non è la stessa persona del certificato di nascita. “Mi sono fatta assistere da sei legali, hanno scritto alla Prefettura ma niente da fare. Allora sono andata all’Ambasciata ucraina che mi ha scritto su un documento che l’atto di nascita e il passaporto identificano la stessa persona, cioè me. Ma niente da fare lo stesso e questa storia va avanti da tre anni” dichiara Skirdova, ormai esasperata. La Prefettura di Pistoia, da ultimo con una nota del novembre 2022, resta sul punto, ignorando il documento dell’ambasciata ucraina. Sostiene che sul tema patronimico valga la circolare del ministero dell’Interno n. 462 del 2019 e che la signora dovrebbe far riportare nella sua carta d’identità italiana il suo patronimico come un “secondo nome”, rendendosi così identica a chi descrive il suo atto di nascita ucraino. Ma nessun ufficiale d’anagrafe può fare quanto chiede la Prefettura, perché deve trascrivere solo quanto è indicato nel passaporto. E in Ucraina i passaporti non riportano il patronimico, come chiarito dalla stessa ambasciata del paese di Zelensky.
Secondo gli ultimi dati resi pubblici dal Viminale in Italia sono 121.457 le nuove cittadinanze concesse a cittadini stranieri, il 69,9% delle quali per naturalizzazione. La cittadinanza italiana si acquisisce quindi sette volte su dieci su richiesta di chi è sposato con un cittadino italiano o vive continuamente nel paese da più di dieci anni. Non basta però possedere questi due requisiti per ottenere la cittadinanza italiana. Deve essere presentata richiesta al ministero dell’Interno che per legge gode di ampia discrezionalità nel decidere se concederla o meno. Questa discrezionalità, però, legata a motivi di ordine pubblico e rafforzata da una sentenza del Consiglio di Stato, è diventata capace di esiti paradossali, come quello di Lidiya Skirdova, dopo l’introduzione della piattaforma web ministeriale di richiesta. Infatti il cittadino straniero che vuole chiedere al ministero dell’Interno la cittadinanza italiana per naturalizzazione è tenuto ad accedervi con SPID o CIE e da lì a inserire i propri dati identificativi (nome, cognome, data e luogo di nascita etc.) contenuti in cinque documenti differenti, nonostante i sistemi di autenticazione SPID e CIE nascano proprio per evitare al cittadino di ripetere gli stessi dati personali nei moduli della Pubblica Amministrazione. La ripetizione degli stessi dati identificativi nei cinque documenti differenti – certificato di nascita, carta d’identità italiana, passaporto, permesso di soggiorno e certificato penale del paese di origine – presenta un problema di fondo. Basta una piccola differenza tra questi, come un banale trattino inserito da un ufficiale d’anagrafe a dividere primo e secondo nome proprio mentre il passaporto del cittadino li indica come uno dopo l’altro (“Anna-Maria” al posto di “Anna Maria” ad esempio), per vedersi respingere la domanda di cittadinanza. Lo stesso accade con i nomi dei luoghi di nascita, dove sono state rifiutate domande che riportavano lo stesso comune ma indicato nel certificato di nascita con un accento e nella carta d’identità italiana con l’apostrofo (“Mbacké” ad esempio rispetto a “Mbacke’”).
Questa discrezionalità del ministero dell’Interno, poggiata in questi casi sulla rigidità algoritmica della sua piattaforma web di raccolta delle domande di cittadinanza italiana per naturalizzazione, produce il rifiuto di circa il 10% delle richieste. In numeri, nel solo 2020 lo stesso Viminale ne censisce 12.478. E si moltiplicano quelli dove le stesse ambasciate dei paesi stranieri si sentono negare legittimità ai propri atti, da parte delle nostre Prefetture. Come accaduto all’ambasciata ucraina nel caso di Lidiya Skirdova.