I 18 dipendenti ancora in vita che per anni hanno lavorato a contatto con i veleni della Miteni sono stati tutti interrogati dai carabinieri del Noe di Treviso tra il 2020 e il 2021. Il loro è il racconto di un inferno in fabbrica, con rischi sottovalutati, macchinari non funzionanti, sistemi di sicurezza inadeguati, esalazioni intossicanti. Ecco alcuni stralci delle loro testimonianze
Verbali che accusano. I carabinieri del Noe di Treviso hanno interrogato nel 2020 e 2021 i 18 lavoratori della Miteni che soffrono di patologie dopo un’esposizione di decenni ai Pfas. Il loro è il racconto di un inferno in fabbrica, con rischi sottovalutati, macchinari non funzionanti, sistemi di sicurezza inadeguati, esalazioni intossicanti.
“C’ERA DISPERSIONE NELL’AMBIENTE” – “Sono stato assunto dalla Rimar nel 1984, ho lavorato sempre fino al 2019 nel reparto fluoroaromatici. Mi sono occupato di caricare e scaricare i reattori e distillatori, nonché infustare i materiali intermedi e finiti. Nell’ambiente di lavoro vi era sia dispersione gassosa che di polveri. Al termine delle reazioni chimiche mi sono occupato di rimuovere i pacchi elettrolitici e trasferirli nella zona ‘lavaggio pacchi’, dove la pulizia avveniva sia con idropulitrice che a mano (per la rimozione delle incrostazioni più dure). La fase più critica era il trasferimento del pacco elettrolitico ancora fumante con un muletto fino alla zona lavaggio, l’operatore alla guida del muletto indossava la maschera però vi era dispersione nell’ambiente di esalazioni chimiche ma gli altri tecnici che si trovavano a pochi metri di distanza inalavano gas e polveri poiché non indossavano la mascherina”.
ASPIRAZIONE INSUFFICIENTE – Sono molte le segnalazioni di questo problema. “Una criticità era la scarsa efficienza dei sistemi di aspirazione”. Un altro operaio: “Gli impianti di aspirazione nei reparti produttivi erano scarsamente efficaci e frequentemente in avaria e questo fenomeno è stato più accentuato negli ultimi anni in cui ho lavorato in Miteni”. In un altro reparto: “Nella lavorazione finalizzata ad ottenere il 2,4dinitro, che solidificava a 60 gradi, gli sfiati dei sistemi di aspirazione spesso si intasavano e risultavano inefficienti”. A rischio il settore Controllo Qualità delle sostanze. “I laboratori dell’epoca erano molto vecchi e con ambienti non suddivisi adeguatamente, i sistemi di aspirazione presenti non erano efficaci, può essersi verificata dispersione di esalazione nell’ambiente”.
LA SCAGLIETTATRICE – “Una criticità era presente durante la fase di scagliettatura del materiale finito. Il macchinario denominato scagliettatrice lo riduceva in scaglie e durante questa fase c’era dispersione nell’ambiente”. Sempre di fronte alla stessa macchina: “In una occasione, nonostante avessi dispositivi di protezione, la polvere passò attraverso la tuta protettiva e fui costretto ad andare in infermeria: avevo braccia, collo, parte della schiena arrossate. Mi lamentai con i superiori e per 3 mesi venne assegnato alla portineria”.
LE FASI DEL “DINITRO” – Un operaio descrive la lavorazione nel reparto “Dinitro” per i composti dei benzotrifluoruri. “Venivano caricati i reattori per la clorurazione, poi la sostanza veniva stoccata all’interno di serbatoi… poi caricata in altri reattori dove veniva iniettato dell’acido fluoridrico con pressione a 20 atmosfere… poi distillata all’interno di colonne di distillazione… al termine del processo si otteneva il dinitro. In teoria gli impianti sarebbero dovuti essere a tenuta stagna, ma in alcuni casi si sono verificate rotture o perdite. Una criticità poteva essere rappresentata dalla scarsa manutenzione degli impianti che ho notato a partire dal 2009 ovvero dopo l’acquisto da parte della Icig. In particolare ricordo di aver notato emissioni di fumo provenire dai reattori, di aver avvertito odore di gas e di acido solforico”.
LA PULIZIA – “La bonifica dei reattori o celle di elettrofluorurazione consisteva nella pulizia interna del macchinario. A volte bisognava intervenire materialmente con un utensile per rimuovere i residui di peci perfluorate tra un elemento e l’altro. L’operatore, con un palo o una barra di ferro appuntita, si posizionava superiormente, batteva con forza al fine di rompere i residui peciosi… Invece i fondi di distillazione venivano scaricati caldi dal distillatore teflonato all’interno del pozzetto collegato al depuratore. In questo caso vi era dispersione nell’area di vapori e gas contenenti sostanze perfluorate”. Un altro operaio: “Talvolta il latte di calce si addensava e non fluiva nella tubazione. Allora bisognava intervenire manualmente con un utensile. Allora non si usavano mascherine e le esalazioni venivano inalate. Nel reparto elettrofluorurazione per rimuovere i residui più duri si interveniva manualmente con un martello e con una lama di circa 5 mm per rimuovere i residui più duri dai pacchi elettrolitici”.
TUMORE ALLA GOLA – Un operaio che non riesce a parlare, perché colpito da un tumore alla gola: “Avvertii i primi sintomi con febbre e debolezza, fui operato all’ospedale di Valdagno con asportazione della laringe, metà faringe, sternocleidomastoideo sinistro, metà tiroide e vari linfonodi, ricevetti 30 radioterapie. Il lavoro più eseguito era la scagliettatura, che provocava bruciore agli occhi e anche alterazioni della vista per più ore. L’effetto era dovuto all’uso di acido nitrico. Avvenivano a volte rotture di vario tipo con fughe di gas cloro. Un paio di volte almeno, se non di più, fui costretto a restare per alcune ore disteso sul lettino in infermeria respirando con l’aiuto dell’ossigeno. Le rotture impreviste erano tutt’altro che rare, ci accorgevamo perché ne percepivamo gli effetti, odori e fumate”.
“CI TRANQUILLIZZAVANO” – Per trent’anni ha fatto il tecnico di turno, una volta è finito in rianimazione, per due volte gli è stata riscontrata una polmonite chimica da inalazione di cloro, nel 2016 un’intossicazione cronica da Pfoa: “Eravamo a conoscenza delle problematiche generali delle lavorazioni chimiche, ma in virtù delle informazioni che ci venivano date e dei controlli sanitari cui eravamo sottoposti (analisi del sangue, urine, esami citologici) pensavo che i rischi fossero abbastanza contenuti. Con cadenza annuale avevamo degli incontri con il medico che ci illustrava i risultati delle analisi tranquillizzandoci sulla situazione sanitaria”.
MALATTIE SENZA CONSEGUENZE – Nella richiesta di archiviazione della Procura, ricorre come una litania la stessa formula: “Ne è dunque derivata una malattia della durata superiore ai 40 giorni, la ipercolesterolemia. Non ricorrono comunque né la circostanza del pericolo per la vita del lavoratore, né postumi penalmente rilevanti”. In molti casi la ciliegina sulla torta: “L’Inail ha accertato una menomazione dell’integrità psico-fisica che non dà diritto ad indennizzo in capitale, né a costituzione di rendita”. La menomazione da accumulo di Pfoa nel sangue è del 2 per cento, troppo poco per raggiungere il grado minimo indennizzabile.