Oggi è la Giornata Internazionale della Felicità. Lo ha deciso nel 2012 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il che da allora ci ricorda, purtroppo, quanto poco felici siamo in Italia. Lo dice anche il World Happiness Report, che per la sesta volta pone la Finlandia al 1° posto nella classifica dei 109 Paesi analizzati per il triennio 2022-2022. Nella top ten, come sempre, ci sono altri Paesi del Nord Europa, come Danimarca (2° posto), Islanda (3°), e poi Paesi Bassi (5°), Svezia (6°), Svizzera (8°), Lussemburgo (9°). Fuori dall’Europa, spicca Israele al 4° posto. Noi italiani siamo solo al 33° posto, in calo rispetto al report precedente, quando eravamo 31esimi.
Quali sono i parametri? Riprendo dal Report quelli fondamentali: reddito, salute, avere qualcuno su cui contare, avere una sensazione di libertà nel prendere le decisioni più importanti della vita, disponibilità a essere generosi, corruzione percepita (in inglese: income, health, having someone to count on, having a sense of freedom to make key life decisions, generosity, perception of corruption). Ricordo che i Paesi ai primi posti sono da sempre ai primi – guarda caso – anche per parità di genere (vedi il Gender Gap Report del World Economic Forum), penetrazione dei media digitali e delle tecnologie informatiche e loro uso competente (vedi l’Indice dell’Economia e della Società Digitale (DESI) della Commissione Europea).
Chi sta dietro a questa classifica? È una ricerca condotta dal Center for Sustainable Development della Columbia University, con il supporto del Centre for Economic Performance della London School of Economics, la Vancouver School of Economics della University of British Columbia, il Wellbeing Research Centre all’University of Oxford e lo Helping and Happiness Lab della Simon Fraser University. Il che implica l’impostazione metodologica e teorica delle scienze cognitive, della psicologia e delle scienze statistiche dominanti nel mondo accademico angloamericano.
Da semiologa e studiosa del linguaggio “sudeuropea” (che pur conosce gli studi angloamericani), ricordo che, per maggiore obiettività, bisognerebbe includere in questo tipo di ricerche una parte che approfondisca i diversi significati che i popoli danno, nella loro lingua, società e cultura, alla parola “felicità” e a quelle che le sono connesse, come “gioia” e “serenità”, per dirne due. Anche in lingua inglese queste ricerche usano a volte “joy” e a volte “happiness” come se fossero equivalenti, il che non è.
La parola “felicità” e le sue affini, infatti, come tutte le parole che designano emozioni, subiscono variazioni importanti non solo da un Paese all’altro e da una lingua all’altra, ma da una persona all’altra nello stesso Paese (e nella stessa regione o città). E cambiano persino nel corso della vita di ognuno e ognuna: ciò che intendevo per felicità a quindici anni, ad esempio, è molto diverso da ciò che intendevo a venti o trenta, e ancora diverso da ciò che intendo oggi. Figuriamoci quanto il concetto di felicità possa cambiare di Paese in Paese. Tipicamente, invece, queste ricerche non tengono conto di queste variabili.
Pur con importanti limiti, queste indagini e statistiche ci dicono comunque qualcosa di vero. Soprattutto perché sono confermate da molte altre indagini e statistiche, che da anni ci ripetono quanto l’infelicità, il malessere psicofisico, l’insoddisfazione e i disturbi psicologici siano diffusi in Italia. In modo crescente. A tutte le età. E moltissimo fra i più giovani, bambini e bambine inclusi.