Provate a immaginare. A immaginare di accendere la radio per cercare la vostra musica preferita e trovare solo i successi commerciali. Gli spettacoli teatrali sono scomparsi insieme a quelli di danza e al cinema vengono proiettati solo film che staccano biglietti. E adesso chiedetevi: che società sarebbe? Su quali valori si fonderebbe? Quali capacità critiche e di osservazioni sul mondo saremmo in grado di formulare? Non saremmo forse impoveriti nella nostre emozioni, nella nostra capacità di interpretare il mondo e la vita? Sarebbe oggettivamente un impoverimento culturale destinato a farci arretrare in una qualità della vita più conforme, debole, triste. In una parola peggiore, manipolabile, meno libera. Questa visione del mondo, che oggi verrebbe definita “distopica”, è un rischio possibile dovuto a quanti sostengono che la cultura è un bene accessorio perché non è funzionale alla necessità primaria del mangiare.

Prendendola alla larga, drammatizzando e forse banalizzando il problema, è il grande interrogativo che si è posto nel convegno “Lavoro e artisti nello spettacolo”, organizzato dalla rivista “Lavoro e diritto” edita dalla casa editrice “Il Mulino”. In modo più raffinato ci si è chiesti quale sia oggi il valore che viene assegnato alla rappresentazione artistica, che sia musicale, teatrale o di danza. La risposta è che oggi pare che in Italia non sia quantificabile.

Esiste una massa di lavoratori dello spettacolo che vivono nel precariato totale, che non sono in grado di costruirsi una posizione previdenziale perché le giornate di lavoro non sono sufficienti a versare i contributi necessari. E alcuni, favorendo una sorta di “dumping” lavorativo, preferiscono farsi pagare in nero o semplicemente a prestazione occasionale pur di lavorare. Esiste inoltre una frammentazione delle diverse forme contrattuali fra spettacolo dal vivo e audiovisivo. Esistono delle leggi tese a sostenere questo ambito ma non ce n’è una che faccia riferimento alla discontinuità del lavoro, alla qualificazione del tempo per mettere in scena uno spettacolo, sia dal punto tecnico che artistico. Il lavoratore dello spettacolo non viene, insomma, considerato come un altro lavoratore, con situazioni sindacali frammentarie e minoritarie e, conseguentemente, minori tutele.

Dietro al “talento” richiesto nello spettacolo, per quell’ora di spettacolo a cui si assiste e nella indeterminatezza degli orari, che comprendono la preparazione individuale, non esiste un inquadramento nel contesto delle regole generali del lavoro. È un precariato che accomuna sempre più il lavoro dello spettacolo a quello di altri lavori. Un fronte comune dal quale escono tutti con le ossa rotte e una sempre maggiore incapacità di fare fronte alle mere questioni di sopravvivenza.

Al convegno sono emersi gli aspetti del mercato, rappresentati da chi organizza gli spettacoli dovendo fare quadrare i conti con un pubblico, soprattutto per la musica classica, che sta pericolosamente invecchiando senza avere un ricambio generazionale che è semplicemente immeritato, vista l’importanza della conoscenza culturale e dell’emozione che uno spettacolo dal vivo riesce a trasmettere. Il costo di un grande artista, valutato sul reale talento più che sulla mera popolarità, è tale da non riuscire a coprire i costi della messa in scena. E quindi nasce la necessità di reperire fondi pubblici. Necessità espressa anche dai rappresentanti delle altre forme di spettacolo, ad eccezione forse dell’audiovisivo, dove, grazie alle facoltose piattaforme televisive a pagamento, c’è stata una rinascita post-pandemica delle produzioni cinematografiche italiane.

E la pandemia è stata una circostanza essenziale anche per questa fetta d’industria, quella culturale, che in un momento di fermo totale si è dovuta interrogare con un panorama di assenza di pubblico e di conseguenti possibilità produttive. Grazie ai grandi nomi, quelli più popolari, i volti noti che hanno la possibilità di incidere sull’opinione pubblica, è stato possibile accendere per un momento soltanto l’interesse dei media e delle persone sul problema di un mondo “senza”. Distopico, come detto prima.

Nasce allora la necessità certamente di sindacalizzare e reclamare diritti, ma anche di chiedersi in un mondo dove il mercato segue più la domanda che la molteplicità possibile dell’offerta quale deve essere il ruolo dell’Istituzione. Approntare una formazione culturale dello spettatore che parta dalle scuole, richiedere all’informazione una maggiore attenzione e una qualifica migliore nel riportare ciò che accade nel mondo dello spettacolo. Chiedersi se la risposta può essere nella defiscalizzazione o nei bonus culturali che non siano riservati solo a chi compie i diciott’anni, ma a tutti coloro che desiderino avvicinarsi all’arte dovendo scegliere, come ricordava una vecchissima vignetta, fra attaccare la spina della radio per ascoltare la nona di Beethoven o quella del fornelletto elettrico per cuocersi un uovo.

Nel mondo migliore possibile, quello a cui ci dobbiamo ispirare, un aspetto non dovrebbe negare l’altro. Perché con la cultura si mangia e devono mangiare molte persone, tutte quelle che stanno dietro ai volti celebri sulla ribalta e che rendono possibile lo spettacolo, cioè i tecnici o le maestranze che dir si vogliano. Nel pieno diritto di poter scegliere che musica ascoltare, che film vedere, che fare la sera, se stare stravaccato su un divano o sedere comodamente in una poltrona di un teatro nell’attesa magica di assistere all’interpretazione del mondo, qualsiasi sia il linguaggio che viene utilizzato. Un mondo che deve essere di tutti e per tutti nell’obiettivo di una continua riflessione su di noi, gli altri, il contesto della società in cui viviamo, il mondo. Perché mantenere viva l’arte vuole dire mantenere viva la capacità critica e una visione “laterale” sul mondo.

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