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Iraq, a vent’anni dall’invasione abbiamo abbandonato (e dimenticato) le vittime

Il 20 marzo di venti anni fa aveva inizio la criminale e illegale aggressione e occupazione militare dell’Iraq, guidata da Usa e Gran Bretagna, alla quale i nostri governi si sono accodati, “fondata” e “giustificata” sulla menzogna delle inesistenti “armi di distruzione di massa” del regime irakeno, sbandierata – tra l’altro – con l’ormai iconica fialetta fake da Colin Powell, Segretario di Stato di George W. Bush, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 5 febbraio 2003.

Nonostante la contrarietà espressa a gran voce da un imponente movimento pacifista internazionale che ne aveva denunciato per tempo l’immoralità, la pericolosità e la pretestuosità: in Italia 500mila persone manifestarono a Firenze il 9 novembre 2002, a conclusione del Forum Sociale Europeo, e poi di nuovo tre milioni a Roma il 15 febbraio 2003, insieme a oltre cento milioni in tutto il mondo, al punto da essere dichiarato dal New York Times “la seconda superpotenza mondiale”.

Nonostante quella guerra abbia provocato, direttamente e indirettamente, oltre un milione di morti perché “l’assalto all’Iraq è stato chiaramente una violazione del diritto internazionale, gli Usa e i loro alleati sono responsabili anche per le conseguenze che ha comportato”, come ha rilevato l’organizzazione indipendente Ippnw (International phisicians for the prevention of the nuclear war).

Nonostante fosse già in corso dal 7 ottobre 2001 la pretestuosa occupazione occidentale dell’Afghanistan, come “risposta” all’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre che sarebbe durata per vent’anni, lasciando quel disgraziato paese, centinaia di migliaia di vittime dopo, in condizioni peggiori di quelle nelle quali era stato trovato e attaccato (ma le casse dell’industria bellica internazionale con il doppio dei profitti di venti anni prima).

Nonostante l’aggressione all’Afghanistan prima e quella all’Iraq dopo siano state all’origine dell’ondata di terrorismo fondamentalista di risposta al terrorismo della guerra, del quale subiamo ancora le conseguenze, come ha rilevato anche il Rapporto della Commissione governativa britannica Chilcot del 2014, che ha inchiodato il presidente Tony Blair alle sue responsabilità, concludendone così la carriera politica.

Nonostante tutto questo, nessuno dei mandanti è mai stato formalmente incriminato per questi crimini di guerra da nessuna Corte penale, interna o internazionale. Eppure, scrive il filosofo statunitense Noam Chomsky, l’invasione angloamericana dell’Iraq è il “peggior crimine del XXI secolo: un caso da manuale di quel tipo di aggressione considerato il ‘supremo crimine internazionale’ dal Tribunale di Norimberga” (Chomsky-Waterstone, Le conseguenza del capitalismo, 2022).

Solo il giornalista Julian Assange marcisce da anni in una galera di massima sicurezza britannica – in attesa di estradizione in una analoga galera Usa dove rimarrà per il resto della vita – per averne (di)mostrato attraverso Wikileaks i cosiddetti “effetti collaterali”, ossia la quantità di deliberate vittime civili.

Delle quali abbiamo ormai perso anche la memoria – oltre ad aver rubato loro impunemente la vita – visto il silenzio della maggior parte dei media che ne sta accompagnando questo ventennale. E continuiamo a rubarla quando annegano, come profughi senza soccorso, in prossimità delle nostre coste, in fuga da un Paese ormai devastato.

Eppure, anche in quella guerra come nella precedente (e successiva) dell’Afghanistan e in quella in corso in Ucraina, c’è stato un “aggredito e un aggressore”, com’è necessario dire ossessivamente da un anno a questa parte. Ma in quei casi gli aggrediti erano figli di un dio minore (e l’aggressore figlio di un Dio maggiore). Perciò, dopo averli violati, li abbiamo abbandonati al loro destino. E dimenticati.