La premier Giorgia Meloni con una discreta enfasi escatologica ha dichiarato che la riforma fiscale proposta ora dal suo governo era quella attesa da 50 anni. Informazione del tutto sbagliata perché la destra ha tentato una riforma del fisco, anche allora copernicana ma poi quasi del tutto fallita, ancora nel 2003 con il prof. Tremonti. La sig.ra Meloni, che sta facendo un po’ di gaffe in economia, dovrebbe attorniarsi di consiglieri più preparati, almeno nella parte storica.
Al di là della retorica sovranista, la riforma ha per scopo dichiarato quello di ridurre le tasse degli italiani. Il partito no-tax, che ha un unico punto nel programma – le tasse vanno sempre e comunque ridotte – ha conquistato la cabina di regia e vedremo cosa accadrà. Posto che, come diceva Luigi Einaudi, tutti, indistintamente, pensiamo di pagare troppe tasse, e quindi una loro riduzione è sempre desiderata, la questione è se un’ulteriore riduzione sia utile per le tasche dei cittadini, oltre che per casse dello stato. La risposta è ampiamente negativa. L’ideologia no-tax, cioè il populismo demagogico in campo fiscale, è sbagliata in teoria e produce degli esiti molto negativi in pratica, almeno per tre motivi.
1. Il primo è il motivo dell’efficienza. Su questo punto si sono riempiti scaffali di biblioteche, ma senza contorsioni teoriche sempre contestabili prendo spunto dall’esperienza personale. Recentemente ho prenotato presso l’Asl una visita oculistica di controllo. Costo: 25 euro. Una visita simile sarebbe costata presso un medico privato non meno di 100 euro. Di conseguenza la sanità pubblica mi ha fatto risparmiare il 300%. Non poco e non si tratta di un episodio isolato. Quando consideriamo i servizi pubblici, i beni indivisibili degli economisti, il mercato è totalmente inefficiente: cioè il sevizio costa molto di più. Questo lo sanno bene i cittadini americani che spendono il 18% del Pil in sanità che è privata, contro una media europea dell’8%, per avere un servizio di qualità mediocre. Oppure bisognerebbe chiederlo ai 40 milioni di studenti americani stritolati dai debiti studenteschi causati dalla crescita esorbitante delle rette. Quindi l’idea che il sevizio pubblico sia inefficiente è del tutto sbagliata, sia in teoria che in pratica. Al contrario, andrebbe pienamente realizzato. Molti miei colleghi che ripetono continuamente il mantra liberista del fallimento dello stato sono abbastanza ingenui, oppure così benestanti da poter permettersi la sanità privata e altri servizi pubblici a pagamento
2. Il secondo motivo è quello del debito. Il partito no tax dovrebbe richiedere per coerenza anche una riduzione dei servizi pubblici per compensare la riduzione delle entrate, che invece vengono mantenuti. Nessuno si presenta agli elettori proponendo il taglio dei servizi pubblici in nome delle virtù del mercato. La conseguenza è che il movimento no-tax si è sempre trasformato in un movimento sì-debt, per continuare con i neologismi, da quando Ronald Reagan ha iniziato la sua rivoluzione fiscale nei primi anni Ottanta. Questa erosione delle entrate ha portato ad un gigantesco debito pubblico e ad un drammatico sottofinanziamento della sanità, dell’istruzione e di tanti beni pubblici strategici. Se oggi in Italia queste spese sono molto inferiori a quelle dei nostri concorrenti, con inevitabili conseguenze sulla qualità del servizio reso, non è colpa dell’inefficienza del pubblico ma della crescente affermazione del movimento no-tax. Scaricare poi l’onere presente sulle generazioni future non sembra rispettare un elementare criterio di equità tra generazioni.
3. Il terzo motivo, quello più recente ma anche meno comprensibile, è il favoritismo fiscale nei confronti dei redditi elevati. Le riforme fiscali della destra in tutto il mondo hanno avvantaggiato coloro che si trovano ai livelli più alti della scala dei redditi. Anche se, in teoria, le tasse si riducono per tutti, i benefici maggiori vanno alle fasce benestanti della popolazione. Questa pseudo meritocrazia fiscale ha fatto breccia anche nel contesto italiano, contribuendo ad aumentare le disparità fiscali. Per fare un esempio molto noto, nella riforma del 1973 l’aliquota massima dell’Irpef era del 72%, ora è del 43%, con una riduzione delle tasse del 70%. Qualcuno può gridare allo scandalo, ma si tratta di una tassazione per i redditi superiori ai 4,6 milioni di euro. Un peso non così insostenibile, credo, per i bravi e fortunati milionari.
In definitiva, l’idea che le tasse vadano sempre e comunque ridotte è sbagliata, come pure l’idea opposta. Il principio costituzionale e di buon senso della progressività è una cerniera tra le due prospettive estreme che mettono a rischio la stabilità sociale, come ben hanno intuito i padri costituenti. Bisognerebbe ritornare là, se si vuole un fisco più semplice ed equo, da destra ma anche da una certa sinistra.
Quale sarà il successo di questa strategia fiscale della Melonieconomics, meno tasse e più debito, che sembra al centro della nuova proposta della destra nostrana? Gli esempi non sembrano incoraggianti. Una premier che ha seguito questa linea della totale irresponsabilità fiscale attraverso un’ampia riduzione delle tasse è stata l’inglese Liz Truss che però ha resistito appena sei settimane, ed è stata costretta alle dimissioni. Sono convinto che se non fossimo nella fortezza Europa anche i giorni della coppia italianista Meloni-Giorgetti sarebbero finiti. Il partito no-tax intanto si è già impantanato nelle sue promesse, richiedendo di tagliare oltre che le tasse anche gli sconti fiscali, una sonora presa in giro dei contribuenti. Speriamo che gli elettori, di destra ma anche di sinistra, aprano gli occhi. Non di grandi riforme abbiamo bisogno, anche in campo fiscale, ma di persone preparate e culturalmente oneste. Il fanatismo del movimento no-tax è un virus che può essere anche mortale.