di Stefano Briganti
Pochi giorni fa cadeva l’anniversario dell‘invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti: sono passati vent’anni. Nel 2003 la cosiddetta “comunità internazionale” non trovò nulla di osceno in tale azione. Era il periodo in cui il parossismo del terrorismo islamico faceva considerare ogni islamico un potenziale terrorista e una guerra agli Stati considerati “estremisti islamici” era giusta. Era il periodo in cui gli Stati Uniti avevano lanciato la crociata per liberare il mondo dal terrorismo e per “esportare la democrazia” a stelle e strisce in quei paesi “barbari” che professavano la fede islamica. Era il periodo della furia vendicatrice made in Usa dopo lo sfregio delle Torri Gemelle. Ma non potevano bastare la vendetta o la crociata per bombardare Baghdad con l’avallo delle Nazioni Unite. Occorreva costruire una minaccia ancor più grande.
Così i vertici di Cia e Pentagono con l’ok del Presidente misero in piedi la grande bugia: “Saddam Hussein ha un arsenale di armi di distruzione di massa che sono una minaccia tremenda per tutto il mondo e noi, Usa, tale minaccia dobbiamo distruggere per proteggere il mondo”. Questo in sintesi disse Colin Powell a marzo del 2003 davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite mostrando la famigerata provetta con polvere bianca dicendo contenesse antrace proveniente dall’Iraq. L’Onu diede l’approvazione all’operazione e poche ore dopo i bombardieri americani sganciavano con “ferocia bestiale” una tempesta di bombe su Baghdad mentre le navi Usa lanciavano missili sul palazzo presidenziale. Rimangono indimenticabili le immagini della devastazione delle opere d’arte secolari nel palazzo per mano dei marines e dei carri armati, con totale ignorante disprezzo e desiderio di annichilire e umiliare.
Indimenticabili le immagini rese pubbliche di Saddam Hussein impiccato nel 2006 per crimini contro l’umanità per la strage di Dujial dove morirono 148 civili. L’esercito americano rimase in Iraq per anni, uccise centinaia di migliaia di iracheni (tra i 300mila e i 500mila: il numero esatto non è mai stato accertato) tra soldati, donne, vecchi e bambini. In quegli anni la Cia mise in piedi il carcere di Abu Ghraib che con le foto pubblicate nel 2004 si dimostrava essere un carcere di tortura e violazione sistematica dei diritti umani dei prigionieri iracheni. Nel 2005, di fronte alle prove che l’Iraq non possedeva armi chimiche, Powell dovette ammettere pubblicamente che quel giorno del 2003, davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, era stata costruita una messinscena. Eppure nessuno allora si alzò a giudice di tale nefandezza.
Ogni volta che un tribunale si pronuncia su crimini di guerra si dovrebbero ricordare quegli stessi crimini che mai vennero processati. Il dolore di chi muore e di chi gli sopravvive è uguale tra ucraini e iracheni. Il sangue versato è rosso per entrambi e il crimine di una guerra immotivata è lo stesso a prescindere da chi lo perpetra, perché la legge di un tribunale deve essere uguale per tutti. Due guerre immotivate. Due crimini disgustosi: deportazione di bambini uno e 500mila persone uccise – tra cui migliaia di bambini incluso il massacro di Ishaqi – l’altro. A nulla sono valsi i quasi 400mila documenti dell'”Iraqi War Logs” resi pubblici da WikiLeaks che documentavano le atrocità commesse in sei anni sui civili dall’esercito a stelle e strisce. Mentre mille pagine di documentazione raccolte in Ucraina sono state sufficienti per una giusta condanna per crimini di guerra a Putin.
Un crimine è condannato e l’altro no. E’ evidente che la condanna dipende da chi commette il crimine e non dal crimine stesso. Per una volta, una sola volta, lasciamo da parte il mantra “aggressore e aggredito” o “putiniano e atlantista”, perché sia in Iraq che in Ucraina c’è stata una “ingiustificata” aggressione su un paese sovrano aggredito. Indigniamoci invece ogni volta che la giustizia non è uguale per tutti.