La proposta di legge riguardante le detenute madri passa in Commissione Giustizia della Camera con un emendamento della Lega che allontana la possibilità di benefici nel caso di recidiva e che restringe le alternative al carcere per donne incinte e con bambini piccolissimi. I parlamentari del Pd, che avevano presentato la proposta, ritirano di conseguenza le loro firme, facendo decadere il provvedimento. Un nuovo nulla di fatto, dunque, su un tema, quello dei figli di donne detenute, sul quale tutti si dicono da sempre d’accordo sul dover intervenire con urgenza.
La prima volta che il legislatore, dopo che nel 1975 era entrato in vigore l’ordinamento penitenziario, si è occupato segnatamente del tema delle detenute madri fu nel 2001. Fu scelto simbolicamente l’8 marzo di quell’anno come data per l’entrata in vigore della legge 40, la cosiddetta legge Finocchiaro dal nome della promotrice e prima firmataria. Tra le altre cose, la legge introdusse nell’ordinamento penitenziario una specifica misura alternativa per le donne con figli fino ai dieci anni di età, la detenzione domiciliare speciale. Se rispettavano alcuni parametri sulla pena espiata, esse vi potevano venir ammesse “se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli”.
Purtroppo questi paletti si rivelarono troppo alti. I magistrati di sorveglianza, negli anni successivi, fecero un ricorso molto limitato alla detenzione domiciliare speciale per madri, vista la difficoltà di escludere che la donna sarebbe tornata a commettere un reato nonché l’inadeguatezza di molte soluzioni abitative per ripristinare la convinvenza con i figli, soprattutto nel caso di donne rom.
Fu anche per questo che dieci anni dopo si ritornò sul medesimo tema con la legge n. 62 del 2011, che tentava di smussare alcuni ostacoli alla concessione dei benefici e che introduceva le case famiglia protette per accogliere quelle donne che non avevano un proprio domicilio considerato adeguato. Purtroppo anche in questo caso i risultati non furono quelli sperati. La legge non prevedeva alcuna copertura finanziaria, lasciando agli enti locali l’onere di realizzare le case famiglia. Facile capire per quale motivo, a tutt’oggi, ne esistano solo due, una a Milano e una a Roma, per un totale di una quindicina di bambini ospitati con le loro madri in tutta Italia.
La proposta di legge Siani, presentata nella scorsa legislatura e ripresa nell’attuale a firma Serracchiani, avrebbe finalmente garantito risorse per la creazione delle case famiglia.
Purtroppo non se ne farà nulla. E le modalità in cui ciò accade sono preoccupanti. Chi fa appello alla recidiva come criterio di esclusione da benefici penitenziari o è in malafede oppure non conosce la realtà delle nostre carceri. La composizione socio-giuridica in particolare delle donne detenute ci mostra come la recidiva non caratterizzi affatto crimini di peso o di allarme sociale, bensì uno stile di vita legato alla piccola o piccolissima criminalità da strada, legata all’esclusione sociale, alla povertà economica, alla tossicodipendenza.
La scorsa estate una donna ha partorito da sola, con il solo aiuto della compagna di cella anch’essa in gravidanza al quinto mese, nel carcere romano di Rebibbia. L’anno precedente una donna incinta si è sentita male nel carcere milanese di San Vittore e ha perso il proprio bambino. Matteo Salvini si è rallegrato dell’emendamento votato in Commissione e ha parlato del “vergognoso sfruttamento della gravidanza da parte di borseggiatrici e delinquenti”. Come se noi donne ci facessimo mettere incinte per poter liberamente rubare un portafogli. Peggio per lui che ha questa visione della realtà. Peggio per quei bambini che resteranno dietro le sbarre.