Non è necessario essere tifosi Ferrari per sperare in una stagione di Formula 1 più combattuta di quanto visto nei primi due gran premi del 2023, tra Bahrain e Arabia Saudita, dove la superiorità Red Bull è stata tale da far ipotizzare, e temere, un campionato monopolizzato dalla coppia Verstappen–Perez. Eppure nel Circus non mancano competizione feroce e ripetuti colpi di scena, basta spostare lo sguardo dalla pista agli uffici e alle sale riunioni, nei centri di potere della F1, dove i tre attori principali – FIA, Formula One Group e le dieci scuderie del Mondiale – stanno portando avanti battaglie senza esclusioni di colpi su diversi terreni: sportivo, commerciale e regolamentare. Non potrebbe essere altrimenti in uno sport che negli ultimi anni ha fatto registrare un incremento formidabile tanto a livello di valore commerciale del prodotto (Formula One Group, acquistata nel 2017 dalla holding Liberty Media, a febbraio aveva raggiunto in borsa una quotazione che sfiorava i 16 miliardi di dollari), quanto di pubblico. In quest’ultimo caso, una recente indagine di Motorsport Network ha mostrato come i giovani e le donne stiano progressivamente affiancandosi allo zoccolo duro dei fan appassionati di motori, con un’età media dei tifosi scesa da 36 a 32 anni nell’ultimo quinquennio, e un presenza femminile raddoppiata.
Numeri che rendono particolarmente ricca la torta da spartirsi. Il primo grande terreno di battaglia riguarda proprio l’entità delle fette spettanti a ciascuna scuderia. Attualmente il Patto della Concordia stipulato dai team, con scadenza 2025, prevede la suddivisione della metà delle entrate complessive della F1 generate da sponsorizzazioni, diritti televisivi e costi di hosting per le piste, attraverso un sistema basato sia sul piazzamento nella classifica costruttori della stagione precedente, sia su quelli ottenuti negli ultimi dieci anni. Si parla di oltre un miliardo di dollari l’anno, con il team campione che riceve circa 130 milioni. L’intenzione della FIA è quella di allargare il gruppo dei partecipanti introducendo dal 2026 un’undicesima scuderia, nello specifico la Andretti-General Motors, motorizzata Renault. Scontata l’opposizione delle scuderie (con l’eccezione ovvia della Alpine, di proprietà dello stesso gruppo Renault) verso un progetto che renderebbe le fette della citata torta meno cospicue. Il 30 aprile scadrà il termine di presentazione delle domande di iscrizione, poi toccherà a FIA e F1 Group valutare impatto, benefici e criticità dell’eventuale allargamento. La tassa di iscrizione è lo strumento utilizzato dalle scuderie per alzare le barricate: il Patto prevede un’imposta pari a 200 milioni di dollari, i team puntano a chiederne il triplo.
Se l’ipotesi undicesimo team ha compattato quasi interamente le scuderie, altre questioni le vedono divise, in un gioco di alleanze, veti e ripicche identico ai processi politici interni e internazionali degli stati. Generalizzando, i gruppi fanno capo alle tre scuderie attualmente leader: Red Bull (con il suo team satellite Alpha Tauri), Ferrari (con le proprie motorizzate Alfa Romeo e Haas) e Mercedes (che fornisce i motori anche a Williams e Aston Martin), più le “indipendenti” McLaren e Alpine. Il tema più caldo riguarda il budget cap, o meglio, lo sforamento del suddetto da parte della Red Bull nel 2021. Il team è stato sanzionato con la diminuzione delle ore di test nella galleria del vento e una multa di 7 milioni di dollari, uscendo indenne dal punto di vista sportivo. Questo non è piaciuto alle rivali, che hanno ritenuto troppo blanda la punizione. Un po’ come accade con il Financial Fair Play calcistico, dove società ultra ricche che non rispettano i parametri vengono sanzionate con una multa, continuando a competere senza alcuna penalizzazione tangibile. Rispetto al calcio, la Formula 1 si è mossa con decisione verso un sistema più equilibrato e sostenibile attraverso l’introduzione del budget cap, quest’anno ammontante a 135 milioni di dollari, esclusi i costi salariali di piloti e principali figure del team, più le spese di marketing. Permangono però dubbi sull’efficacia proprio dell’apparato sanzionatorio.
Al netto dei sorrisi perennemente stampati sui volti di Mohamed Ben Sulayem e Stefano Domenicali, presidenti rispettivamente di FIA e F1 Group, i rapporti tra i due enti sono tutt’altro che idilliaci. Qualche tempo fa l’emiro è tornato sull’offerta di acquisto, vecchia di un anno, da parte del fondo sovrano saudita Public Investment Fund (PIF) per rilevare da Liberty Media lo sfruttamento dei diritti commerciali della Formula 1 per una cifra attorno ai 20 miliardi di dollari. Non è la prima volta che la FIA esce dal proprio ambito di competenza tecnico-organizzativo per entrare in quello commerciale, con la scusa di essere l’effettiva proprietaria del campionato di F1 che, a detta del presidente, “è stato solo dato in affitto”. Interventi sul valore economico della Formula Uno che creano turbative non certo gradite a una società quotata in Borsa, con azionisti e investitori ai quali deve rendere conto, tanto da far minacciare azioni legali a Liberty Media e F1 Group contro la Federazione. Ancora una volta si tratta di una questione monetaria. La strategia della FIA è chiara: considerato il fatturato miliardario generato dalla Formula 1, sono troppo pochi i soldi che entrano nelle proprie casse. Nonostante la multa alla Red Bull per la citata vicenda del budget cap, nonostante l’aumento delle sprint races, la Federazione vuole una fetta più grande. Non è un caso che, dallo scorso settembre, la FIA si sia dotata di una figura inedita per un’organizzazione senza scopo di lucro, vale a dire quella dell’amministratore delegato. L’obiettivo dichiarato è di “aumentare e diversificare i ricavi”. Un compito affidato a Natalie Robyn, il cui curriculum vitae vanta esperienze ad alti livelli con colossi quali Chrysler, Nissan e Volvo.
Chi paga, comanda. Un motto che gli appassionati di calcio hanno imparato a conoscere bene in occasione dei Mondiali in Qatar, specialmente in relazione a quelle tematiche ritenute scomode dai nuovi padroni dello sport: i diritti dei lavoratori e quelli delle minoranze. La regola FIA che vieta ai piloti, durante i weekend delle gare, di rilasciare “dichiarazioni personali, politiche o religiose” senza previa autorizzazione, salvo che ciò non avvenga per rispondere a una domanda diretta, come nel corso di una conferenza stampa, rientra in pieno nel concetto di cui sopra. Oltre alla natura censoria di per sé, particolarmente spinoso risulta essere il tema delle eventuali sanzioni, che potrebbero arrivare anche alla decurtazione di punti in classifica. Senza dubbio è più facile intimare il silenzio a Logan Sargeant piuttosto che a Lewis Hamilton. Infatti il pilota inglese ha già dichiarato che continuerà a parlare di argomenti da lui ritenuti importanti, indipendentemente dalle regole della FIA. La cui rigidità sul tema ha permesso a Liberty Media di cogliere la palla al balzo e prendere le distanze dalle scelte della Federazione attraverso le parole di Domenicali: “Noi come F1 Group non mettiamo il bavaglio a nessuno, anzi siamo stati i primi a lanciare l’iniziativa We Race As One con cui abbiamo offerto l’opportunità di espressione su temi anche delicati”. Dominio Red Bull o meno, sarà una stagione frizzante.