Magistrati indagati o imputati per corruzione, falso o abuso d’ufficio, sottoposti a procedimento disciplinare per traffici di nomine con Luca Palamara, oppure – più semplicemente – giudicati inadatti al ruolo. Che però continuano a fare i procuratori capi, i procuratori aggiunti, i presidenti dei Tribunali o delle Corti d’Appello in tutta Italia, anche dopo diversi anni dalla scadenza dell’incarico. Il motivo? Nessuno si è ancora preso la responsabilità di dire se sono degni oppure no di continuare a occupare quelle poltrone. Il nuovo Consiglio superiore della magistratura, insediato da due mesi, si è trovato una bella grana lasciata in eredità dal precedente: un mostruoso arretrato di pratiche “scomode“, accantonate e mai portate a termine, sulle conferme quadriennali dei capi degli uffici. Di cosa si tratta? La riforma Mastella del 2006 ha previsto che chi ricopre un incarico direttivo (procuratore capo, presidente di Tribunale o di Corte d’Appello) o semidirettivo (procuratore aggiunto o presidente di sezione) debba essere valutato dal Csm al termine dei primi quattro anni. Se il giudizio è positivo può restare in carica per altri quattro, altrimenti torna a fare il giudice o il pm “semplice”. Va da sè che, per funzionare, il sistema ha bisogno di valutazioni puntuali: è del tutto inutile affermare con tre anni di ritardo che un certo procuratore capo avrebbe dovuto smettere di esserlo tre anni prima. Eppure è quello che sta succedendo in moltissimi casi, alcuni molto delicati.
Il vecchio Consiglio, infatti – stravolto e delegittimato dallo scandalo nomine – ha nascosto una montagna di polvere sotto il tappeto, scaricando sui successori ben 41 pratiche inevase, di cui otto relative a procuratori capi e 11 a presidenti di Tribunali e Corti d’Appello. Quasi tutte riguardano casi “problematici“: magistrati sottoposti a procedimento penale, a procedimento disciplinare oppure a una valutazione negativa da parte del Consiglio giudiziario, una sorta di succursale locale del Csm che invia a Roma il proprio parere sulla riconferma. Così, paradossalmente, proprio ai capi più “traballanti“, che rischiavano più degli altri di dover lasciare il posto, le correnti hanno regalato due, tre o anche quattro anni extra ai vertici di Procure, Tribunali e Corti. Il caso più clamoroso, tra i direttivi, è quello dell’ex procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, che aspetta la valutazione del suo quadriennio dal lontano 13 novembre 2019: una questione assai sensibile, visto che il magistrato è a processo a Salerno per falso e corruzione in atti d’ufficio, con le accuse di aver affidato un appalto per le intercettazioni a una società amica (in cambio di un impianto di videosorveglianza nella propria abitazione) e di aver falsificato un’annotazione di servizio per coprire un carabiniere finito nei guai per i suoi rapporti con la ‘ndrangheta. Per questo la sezione disciplinare ha trasferito provvisoriamente Facciolla a Potenza, dove al momento fa il giudice civile. Ma non ha ancora chiarito – ignorando il parere negativo del Consiglio giudiziario – se abbia oppure no i requisiti per guidare per altri quattro anni la Procura calabrese.
Un’altra pratica congelata è quella di Paolo Auriemma, attuale procuratore capo di Viterbo ed ex consigliere Csm con Unità per la Costituzione (Unicost), la corrente di cui Palamara è stato il dominus. I suoi primi quattro anni nell’incarico sono scaduti il 13 aprile 2020, ma palazzo dei Marescialli non ne ha ancora valutato l’operato. Forse perché anche la sua è una vicenda molto delicata sul piano politico: è infatti sottoposto a procedimento disciplinare con l’accusa – tra le altre – di aver insistito con Palamara perché suo cugino Gerardo Sabeone venisse proposto all’unanimità come presidente di sezione della Cassazione (nomina poi avvenuta), allo scopo, diceva, di “evitare altre figuracce” con la sua famiglia. Secondo la Procura di Perugia che lo indaga per corruzione, inoltre, è ad Auriemma che l’ex capo dell’Anm si è rivolto per “aggiustare” un procedimento a carico di un suo amico imprenditore, che in cambio lo aveva ospitato in Sardegna. Nonostante ciò, a tre anni dalla scadenza del primo mandato, il magistrato è ancora in sella e si avvia a completare per inerzia anche il secondo, senza che nessuno abbia ancora messo in discussione la sua adeguatezza a guidare un ufficio inquirente.
In sella resta anche un’altra dirigente di Unicost, la presidente del Tribunale di Firenze Marilena Rizzo, sottoposta a disciplinare per aver sponsorizzato con Palamara candidati a lei vicini per incarichi da presidente di sezione nel capoluogo toscano e a Pistoia, e per avere, dall’altro lato, spinto per non riconfermare un semidirettivo a lei sgradito. Il primo quadriennio di Rizzo alla guida del Tribunale di Firenze si è concluso il 15 dicembre 2019, tre anni e quattro mesi fa: avrebbe dovuto essere valutata allora, ma nessuno ha mai provveduto. Così, anche se il nuovo Csm la giudicasse inadeguata nei prossimi mesi, l’effetto sarebbe nullo, perché il secondo quadriennio è già trascorso quasi tutto. Idem per Vittorio Masia, presidente del Tribunale di Brescia, già sanzionato con la censura per aver segnalato a Palamara nomi di colleghi della sua stessa corrente (sempre Unicost) per posti chiave nel distretto. Scadenza dell’incarico? 27 aprile 2020, quasi tre anni fa. Valutazione per la conferma? Mai arrivata. Anche in questo caso il parere del Consiglio giudiziario è negativo: nella scorsa consiliatura, la quinta Commissione del Csm (competente sulle conferme) aveva disposto l’audizione di Masia, che però non è stata “mai effettuata per i continui rinvii richiesti dal magistrato”. Che in questo modo resta comodamente seduto sulla sua poltrona. Con buona pace delle valutazioni di professionalità.