Roberto Farina, mio zio, fu tra i fondatori di un mitico cineclub degli anni Settanta che si chiamava L’occhio, l’orecchio e la bocca. Erano in tre: Roberto Farina, Silvia Viglia e Gianni Romoli (in seguito diventato produttore e sceneggiatore di Ferzan Özpetek). Chi ama il cinema, non può prescindere dall’esperienza di un cineclub. Il cineclub si oppone per definizione alla visione standardizzata della grande distribuzione cinematografica. Il cineclub è un luogo anarchico, libero e intimo non segue la logica dell’industria, ma la proliferazione “selvaggia” dell’immagine desiderante, non a caso in un cineclub si può assistere alla proiezione di “filmini amatoriali e famigliari”. E’ l’immagine in quanto tale a essere amata nella sua sostanza immateriale e tattile al tempo stesso. Immagini che si lasciano accarezzare, immagini vive, immagini senza guinzaglio e slegate dall’ossessione del profitto.
Come diceva mio zio Roberto “A me non interessa un bel film. Quello che mi interessa è il rapporto con le persone che vengono a vedere i film”. Per motivi anagrafici non ho potuto frequentare il cineclub di Roberto, ma posso immaginare quello che ha rappresentato in quegli anni che non erano solo di piombo, ma anche di leggerezza e vitalità estrema. Gli “anni del pane e delle rose” si veniva dal Sessantotto e c’era una scia di libertà che serpeggiava nelle città e in particolare a Roma dove in via del Mattonato 29, i cinefili potevano tesserarsi e diventare soci dell’Occhio (come veniva chiamato per brevità) e ci si nutriva nel vero senso della parola perché la cultura altro non è che nutrimento non solo spirituale. Perché all’Occhio, oltre che a vedere film o ascoltare opere liriche (l’orecchio), potevi anche mangiare (la bocca).
Se avessi potuto frequentarlo sarebbe stato il mio cineclub preferito. Venivano montate maratone filmiche di 24 ore, spezzoni di film messi assieme uno dietro l’altro, mischiati in un calderone ribollente, scene tagliate, dimenticate negli scantinati, brandelli di pellicola resuscitata alla visione, senza una gerarchia di valore, dalla Medea di Pasolini al calore pulsante di una scena hardcore, senza soluzione di continuità, minestroni cinefili, con gli occhi di Maria Callas (adorata da mio zio Roberto) onnipresenti, tra un gemito e l’altro, tra film di serie a e di serie z, dove la z aveva lo stesso valore della a perché anche un filmino famigliare poteva avere una fragranza cinefila incomparabile e unica. C’era il culto dell‘orgia liberatoria, della con-fusione. Ogni immagine era degna di essere vissuta e assaporata, senza filtri, senza paradigmi di alto e basso, tutto era cinema perché era lo sguardo a essere libero. Uno sguardo libero non mette sul piedistallo niente e nessuno, tutto è fluido e tutto si mescola creando una sorta di estasi cinefila, di godimento anarchico facendo confluire nella stessa libidine cinefila sia Bergman che Franco e Ciccio, Maria Callas e Linda Lovelace, l’ugola d’oro e la gola profonda.
Erano anni di libertà e sperimentazione (sperimentare è l’attività naturale di chi è libero), poi sarebbero arrivati gli anni del riflusso e dei manuali di cinema con le stellette di gradimento per contrassegnare o marchiare un film. Tenere vivo lo sguardo, questo era l’unico comandamento di un cineclub e quindi di un’epoca, quegli anni Settanta ribelli, intransigenti, ammutinati, rivoltosi, sovversivi, erotici contro ogni forma di autorità, contro le pagelle dei critici per una visione totalizzante e mai totalitaria. Questo è stato L’occhio, l’orecchio e la bocca, un cineclub erotico nel verso senso della parola, senza divieti nel corpo del cinema e senza divieti nella carne dello spettatore. Tutto era lecito perché tutto era erotico, desiderante e appassionato.
Il gruppo dell’Occhio collaborò a quel meraviglioso esperimento che fu l’Estate Romana voluta da Renato Nicolini dove gli schermi cinematografici spuntavano come funghi selvatici in giro per la città, non solo quindi il covo fertile del cineclub, la setta aperta a tutti, ma anche la proiezione en plein air, la cinefilia impressionista a portata di sguardo, lo sguardo di tutti, dall’intellettuale al coatto di periferia, tutti assieme appassionatamente. Le rovine di Roma attraversate dai bagliori del Napoleon di Abel Gance, la conquista dello spazio urbano, la cultura che si libera e che scorre in ogni luogo. Non per nulla mio zio Roberto organizzava rassegne cinematografiche in zone marginali e degradate. Come non ricordare Corviale, detto il Serpentone?
Questo edificio enorme, lungo un chilometro, progettato da Mario Fiorentino dove zio Robi ha portato la cultura cinematografica, ma soprattutto lo stare assieme attraverso l’arte, il cinema, la musica e il cibo senza mai dimenticarsi che l’essere umano è fatto di occhi, orecchie e bocche da sfamare, da nutrire con la bellezza e la rivolta, liberi da gerarchie e dalla trappola angosciante del capitale che fa del profitto il suo unico dio. Ricordo i funerali di mio zio, ricordo un Enrico Ghezzi stralunato, sconvolto, un Tatti Sanguineti addolorato, un Oreste De Fornari impeccabile nella sua eleganza e tanti altri ancora. Tutti a rendere omaggio a un uomo libero che ha vissuto liberamente. Lui che diceva sempre di avere due fratelli importanti (mio padre ingegnere e mio zio Dario il compositore), ma che di cose importanti per Roma ne aveva fatte anche lui, eccome, una soprattutto: avere lottato per lasciare allo sguardo tutta la sua libertà, l’Occhio deve restare libero, altrimenti c’è solo cecità.