di Ilaria Muggianu Scano
Una delle poche certezze italiane è che uno dei pulpiti più accreditati di qualsiasi profeta autoinvestitosi sia quello di ricavare un personalissimo osservatorio da cui pontificare sulla Scuola, specie il grado di istruzione superiore, i licei, preferibilmente: mica vorremo mischiarci alle maestrine. La boutade che genera più hype è statisticamente quella relativa a sentenze su demotivazione, incertezze, paure, malattie mentali, associalità, svogliatezze variamente assortite degli studenti. L’anno scorso era di moda il burnout, oggi il mirino è sui ragazzi.
Non c’è maître à penser che voglia dirsene fuori, dall’insegnante che smania dalla voglia di apparire in un talk televisivo, che dopo migliaia di euro investite in scuole di scrittura e auto pubblicazioni pensa che, in fondo, la Scuola è come il maiale: non si butta via niente; passando per quei genitori che si lamentano dei compiti a casa e loro sì che avrebbero qualcosa da ridire sulle politiche scolastiche, fino ad arrivare all’aberrazione maxima: i politici invitati nelle scuole, che ultimamente paventano l’assenza di speranza negli occhi dei ragazzi.
Non occorre precisare che spesso si tratta di un gioco al ribasso, la volpe e l’uva di chi non ha la capacità di conquistare mente e cuore del “popolo del non voto”. Non serve una studiosa dei nuovi fenomeni culturali per capire che qualsiasi sia il contesto scolastico, spesso eccellente, è tempo di abbandonare l’idea arcaica di una Scuola fucina di idee e fermenti, a meno che non si voglia incappare in vistosi anacronismi. Questo tipo di Scuola non esiste più e la ragione risiede in una diversa routine, nel bene e nel male. Potremmo disquisire per ore, secondo tecnicismi fascinosi e sofisticati, ma è sufficiente fare i conti costruttivamente con la realtà dei fatti: i nostri ragazzi, o la maggior parte di essi, hanno uno stile di vita che fino alla generazione precedente, quella dei Nineties per essere più precisi, era d’appannaggio di una persona che aveva già raggiunto diversi traguardi sociali, un onorario, magari minimo, e una socialità più compiuta.
Oggi, sebbene senza alcuna entrata, tantissimi ragazzi fanno l’apericena ogni sera, pranzano al sushi bar a giorni alterni, sono esperti di locali di prima e seconda serata, viaggiano, hanno numerosi scambi con amici di ogni parte del mondo, confronti con diverse generazioni, letture e incontri del genere che preferiscono, senza considerare gli input che potrebbero pervenire dai social network. Che appeal può ancora esercitare la Scuola su un ragazzo con un quotidiano tessuto di ogni stimolo immaginabile? Le mete dei viaggi d’istruzione, spesso, fanno storcere il naso, i ragazzi hanno già visto tanto con famiglia e fidanzati, che senso ha condividere un viaggio con compagni di classe che vedono ogni giorno per tante, tantissime ore? Senza alcun carico di giudizio verso docenti e discenti, la Scuola è il luogo/momento per eccellenza per rimodulare aspettative, desideri, bisogni.
Può la Scuola rispondere a un bisogno? Assolutamente sì: fornisce un sapere abilitante, propedeutico alle conoscenze utili a inserirsi nel mondo del lavoro. La Scuola viene incontro ai desideri degli adolescenti? No, è un luogo d’impegno, esercizio, disciplina. Tradisce le aspettative? È necessario porsi in maniera onesta dinanzi all’assunto più crudo e basilare: a scuola si va per apprendere. La maggior parte degli studenti non è assolutamente demotivato, è certamente e legittimamente stanco nel fisico, ma non svogliato; stessa casistica che ricalca l’andamento motivazionale del corpo docente, non occorre fare i clown per dimostrare interesse per la vicenda umana dei propri studenti, c’è chi è più timido, chi lo è meno, ma la maggior parte dei docenti è preparata, motivata, empatica, salvo i periodi di forte stanchezza.
Ciò che oggi è cambiata è la gigantesca attenzione dei docenti all’identità dello studente, ed è tutto questo parlottare che non la fa apparire per la buona notizia che è.