Perché per Giorgia Meloni e Matteo Salvini è così cruciale la partita europea – al momento persa – sull’inclusione dei biocarburanti tra i combustibili utilizzabili dai motori termici anche dopo il 2035? La risposta è semplice: come è sempre accaduto, politica estera ed energetica sono legate a doppio filo ai piani dell’Eni. Basta leggere la memoria sul pacchetto Ue Fit for 55 presentata in Parlamento un anno fa dal Cane a sei zampe, al centro in questi giorni del risiko per il rinnovo dei vertici delle partecipate pubbliche. Lì, a pagina 5, il gruppo del petrolio e del gas scriveva di ritenere necessario “correggere l’attuale approccio che non considera le minori emissioni dei biocarburanti ai fini del rispetto degli standard emissivi” e di auspicare che la Commissione “si esprima e si impegni a favore dello sviluppo di un quadro di policy in grado di supportare efficacemente la produzione di biocarburanti sostenibili utilizzabili in purezza”. Come il suo HVOlution “composto al 100% da olio vegetale idrogenato puro“, in vendita da fine febbraio più di un mese.
Per il Cane a sei zampe, che ha chiuso il 2022 con un utile triplicato rispetto all’anno prima grazie all’esplosione dei prezzi degli idrocarburi, investire nei biocarburanti è più un obbligo che una scelta. Una direttiva Ue impone infatti ai produttori di mettere in commercio (dietro incentivi statali) una certa quota di biofuel. Così, dopo aver trasformato gli stabilimenti di Venezia e Gela in bioraffinerie, Eni ne sta progettando un’altra a Livorno e nel 2018 ha rilevato le attività nel settore del fallito gruppo Mossi & Ghisolfi e il suo impianto di Crescentino. Attraverso la controllata Eni Sustainable mobility è già il secondo produttore europeo di olio vegetale idrogenato (Hvo), punta a una capacità di bioraffinazione di oltre 5 milioni di tonnellate l’anno al 2030 e stando a indiscrezioni intende presentare un progetto legato ai biocarburanti tra quelli da inserire nel nuovo capitolo del Recovery plan (RepowerEu) che il ministro Raffaele Fitto deve inviare a Bruxelles entro fine aprile.
La domanda da farsi è se il suo nuovo biocarburante sia un toccasana in vista della decarbonizzazione dei trasporti. Di certo è un passo avanti rispetto al Diesel+ con una quota di Hvo messo in commercio nel 2016, per il quale l’azienda è stata multata dall’Antitrust per pubblicità ingannevole in quanto aveva presentato come sostenibile un prodotto in realtà “altamente inquinante” e contenente biodiesel ricavato in gran parte da olio di palma, la cui impronta climatica è superiore a quella del diesel fossile. Ora Eni, prevenendo le critiche, rivendica che le sue bioraffinerie “dalla fine del 2022 sono palm oil free” e utilizzano solo “materie prime di scarto, residui vegetali e olii generati da colture non in competizione con la filiera alimentare”. Sicuramente non a km zero come lascia intendere qualche ministro quando presenta i carburanti bio come alternativa all’auto elettrica con batterie prodotte in Cina. L’olio vegetale viene infatti da un “impianto di raccolta e spremitura dei semi” in Kenya, da cui arriva anche olio di cucina esausto raccolto da “catene di fast food, ristoranti e alberghi”. Altri accordi per lo sviluppo di piantagioni “in terreni marginali e aree degradate” da cui estrarre oli vegetali sono stati firmati con Angola, Congo, Costa d’Avorio, Mozambico e Ruanda.
Il punto su quale ruolo possano avere gli e-fuel cari alla Germania e i biocarburanti sostenuti da Italia e Paesi dell’Est Europa l’ha fatto qualche giorno fa l’ong basata a Bruxelles Transport & Environment, che si batte per la riduzione delle emissioni nel comparto dei trasporti. Stando alla sua analisi, la “neutralità tecnologica” ipotizzata dal governo italiano in vista del varo della direttiva sullo stop alle auto inquinanti semplicemente non esiste. Nel loro ciclo di vita i veicoli alimentati con questi carburanti generano maggiori emissioni rispetto ai mezzi elettrici e hanno un pessimo impatto sulla qualità dell’aria: “Tanto i biocarburanti quanto gli e-fuels presentano valori emissivi di particolato (PM) e ossidi di azoto (NOx) del tutto simili a quelli prodotti dalla benzina. Questi carburanti non rappresentano una soluzione efficace al gravissimo problema dell’inquinamento atmosferico”.
In più c’è il fatto – cruciale – che la disponibilità di materie prime in quantitativi sostenibili è limitata e dipende ampiamente dall’importazione da paesi extra-europei a cui si rischiano peraltro di sottrarre risorse necessarie per la loro decarbonizzazione (costringendoli a utilizzare oli da colture). La produzione, di conseguenza, rimarrà del tutto insufficiente per le esigenze del parco circolante italiano: i 5 milioni di tonnellate di Hvo che Eni intende produrre al 2030 “potrebbero alimentare al massimo 6,9 milioni di veicoli”, il 20% del totale, calcola la ong, e “con la stessa energia prodotta da questi combustibili, e a parità di chilometraggio, l’elettrificazione diretta permetterebbe di alimentare 24 milioni di veicoli elettrici al 2030 (70% circa del parco circolante italiano), lasciando che i limitati volumi di biocarburanti sostenibili vengano utilizzati per decarbonizzare i settori settori hard-to-abate”, quelli più inquinanti e difficili da riconvertire, come l’aviazione, il trasporto marittimo a lunga percorrenza o l’industria pesante. Un punto di caduta che peraltro trova concorde anche l’ad di Eni, Claudio Descalzi, il quale ha detto di non temere la direttiva Ue perché “per i biocarburanti ci sono l’aviazione e il marittimo”. Solo il governo non se n’è ancora fatto una ragione.