L’anno che segna il 75esimo anniversario della nascita di Israele non poteva aprirsi in un modo più drammatico, lo Stato ebraico – come dice il leader dell’opposizione Yair Lapid – “non è mai stato così vicino al crollo”. Sono bastati meno di 90 giorni di governo a Benjamin Netanyahu e i suoi nuovi amici di Jewish Power (Itamar Ben-Gvir) e Bezalel Smotrich (Sionismo religioso) per minare le basi della democrazia e la parte sana dello Stato è scesa in piazza.
Da mesi ogni “maledetto sabato sera” la gente organizzata e non, ha occupato strade, ponti, snodi autostradali, città piccole e grandi come Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa per difendere lo Stato dal “ribaltone”, quello che consente alla maggioranza più risicata della Knesset (61 seggi su 120) di ribaltare le sentenze della Corte Suprema, di mettere le nomine dei giudici nelle mani della politica ma anche di annettere la Cisgiordania con un tratto di penna fregandosene delle conseguenze. Questa folla è stata dispersa con i cavalli, presa randellate, è stata inaffiata con i cannoni ad acqua. Mai un governo è stato così duramente contestato, mai un inquilino della residenza di Balfour Street è stato così divisivo nella società israeliana.
Dopo lo sciopero generale annunciato dal più grande sindacato israeliano Histadrut, importanti settori del settore pubblico sono stati chiusi per protestare contro la spinta legislativa del governo a cambiare il sistema giudiziario e il licenziamento del ministro della Difesa, Yoav Gallant, primo nel governo a frenare sulle “riforme” di Netanyahu. Primo effetto la chiusura dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv a tutti i voli in partenza e in arrivo. Il Paese in tutti i suoi settori – dalla giustizia all’università, dalle start up ai piloti della riserva, dalle spie del Mossad ai netturbini, dai medici agli infermieri negli ospedali, lavoratori e datori di lavoro nel settore privato – si sta fermando.
La situazione sta precipitando con la velocità con cui lo shekel perde valore sui mercati internazionali e piovono le disdette dei turisti stranieri negli hotel della costa. Nessuno vuole andare in vacanza in un Paese sull’orlo della guerra civile. Il terremoto politico tocca anche settori strategici, sono migliaia gli uomini della riserva, che si rifiutano di prestare servizio e questo pregiudica la difesa dei confini di Israele.
Il padre fondatore dello Stato d’Israele, David Ben Gurion, sosteneva che la grandezza di un leader sta anche nel capire quando il suo momento magico è finito, quando l’allineamento dei pianeti che gli ha permesso di raggiungere il potere non è più tale e deve lasciare, per il bene dello Stato. L’ego smisurato di Netanyahu non gli consente di affrontare questo ragionamento con serenità. Mai dire mai quando si tratta del Bibi nazionale, ma anche se promette al Paese di congelare il ribaltone nella Giustizia e le leggi “ad personam”, il suo destino stavolta appare segnato.
“La democrazia israeliana non è in pericolo” ha ripetuto come un mantra durante la sua inutile visita due settimane fa a Roma, a chi lo ha intervistato e ai governanti che l’hanno incontrato. La pensano diversamente gli israeliani che si riversano di nuovo nelle strade di tutto il Paese, sono loro i veri patrioti dello Stato ebraico.