Cultura

“Alla stazione successiva”, il viaggio dell’avvocato tra i capolavori di Fabrizio De André. Sognando una giustizia capace di abbracciare gli ultimi

di Paolo Frosina

Fabrizio de André non credeva nella legge né in chi la applica: “Al vostro posto non ci so stare”, gridava ai giudici, dipingendoli come nani meschini e vendicativi o immaginandoli sodomizzati da un gorilla. Eppure nella sua opera si ritrova un senso profondo e coerente di giustizia. Intesa, però, non come la dea algida e cieca raffigurata dalle statue, ma come una forza istintiva, quasi ancestrale, “che attinge a pieno alla categoria dell’umano: la capacità di guardare alla realtà con il cuore degli ultimi, abbracciando sia le ragioni di chi soffre e subisce che quelle di chi sbaglia”. Di questo parla Alla stazione successiva. La giustizia ascoltando de André (San Paolo, 359 pagine, 19 euro) di Raffaele Caruso, avvocato penalista genovese, legale del Comitato dei parenti delle vittime della strage del ponte Morandi (che è riuscito, per la prima volta in Italia, a far ammettere tra le parti civili del processo). L’autore traccia un percorso esegetico inesplorato delle poesie più celebri di Faber, accompagnandolo con spunti autobiografici personali e professionali, alla ricerca appassionata di una giustizia utopica, la giustizia “della stazione successiva” – la citazione, ovviamente, è da Bocca di rosa – capace di togliersi la benda e deporre bilancia e spada “per volgere gli occhi sul dolore e abbracciare la realtà nella sua complessità”.

Il viaggio inizia dal Pescatore, favola in musica entrata nell’immaginario collettivo. Il testo, nota Caruso, ci insegna che per de André “il punto di partenza è sempre il reale”: l’uomo che arriva sulla spiaggia ha ucciso e da allora non ha (più) un nome, è soltanto un assassino, condizione totalizzante come quella degli imputati, che “perdono la loro identità per assumere quella del loro delitto”. Ma l’assassino, incarnazione del male, ha gli occhi di un bambino, simbolo dell’innocenza. E come i bambini ha paura mentre fugge dalla vendetta, che arriverà ineludibile alla fine dell’avventura. Così il vecchio pescatore – pur sapendo chi ha davanti – non ha dubbi e lo accoglie con un gesto “dal valore simbolico infinito”: versa il vino e spezza il pane, come Gesù all’Ultima cena. Anche in Geordie il protagonista è indubbiamente colpevole: ha rubato i cervi dal parco del re, lo sanno tutti, compresa la sua amata. Che nonostante ciò fa sellare il pony e corre a Londra a implorare pietà, senza cercare scorciatoie, “fragile nelle argomentazioni ma invincibile nella dignità”. E finisce per far lacrimare il cuore di un popolo intero, attonito di fronte all’insensatezza di quella legge che non può e non deve cambiare, per quanto incapace di adattarsi alle esigenze del cuore dell’uomo.

Proprio la figura della fidanzata di Geordie è il varco con cui l’autore riesce a far entrare i lettori nel senso più intimo, e più nobile, del mestiere dell’avvocato penalista (lo stesso, peraltro, a cui de André era destinato per tradizione di famiglia): domandare ascolto e comprensione a chi detiene un potere. L’atto di chiedere, scrive Caruso, “ha una dignità non solo quando si è intimamente convinti di aver ragione, ma anche quando si ha il dubbio – che a volte diviene certezza – di avere torto. È di fronte all’ingiustizia, ovviamente, che il ruolo dell’avvocato ha il suo principale significato. Ma anche chi sbaglia ha la necessità di non essere da solo di fronte al potere, desidera la certezza che tutto sia fatto nel modo corretto, che sia esplorato ogni dettaglio utile della sua storia, necessita della sicurezza che qualcuno griderà per lui invocando giustizia, ma – più probabilmente – implorando pietà”. Per questo, spiega, “mi fanno sorridere le domande di chi chiede come si faccia a difendere chi si sa colpevole: la difesa del colpevole è sacra, significa esplorare ogni minimo anfratto delle vicende umane, e invocare l’umano che l’amministrazione della giustizia richiede per essere giusta al di là della giustizia stessa”.

Nei capolavori di de André l’avvocato trova gli spunti per raccontarsi e raccontare l’umanità incontrata in carriera. Marinella, prostituta scivolata nel fiume, diventa Ruth, una ragazza olandese vittima di violenza sessuale mentre era in vacanza in Liguria. Accompagnato dal Testamento di Tito, poi, l’autore riflette da cattolico osservante sulle contraddizioni della fede e sul rapporto tra legge e morale. Mentre la storia del medico che voleva “guarire i ciliegi” (Un medico, Antologia di Spoon River) e finisce a truffare i pazienti è il modo per ricordarsi di “non tradire il bambino per l’uomo”, di conservare quell’idealismo che anima gli esordi nelle professioni e spesso svanisce con gli anni, spento dalla routine e dal cinismo. E non può mancare la storia del Giudice di Edgar Lee Masters, che Faber ha riadattato trasformandola in un affresco formidabile della piccolezza del potere: il nano dileggiato che “compie un gesto sacrilego, si fa dio, e da lì esercita il potere consumando la sua vendetta”. Un brano che Caruso ammette di avere l’abitudine di far partire a tutto volume, cantando a squarciagola, quando un processo gli va storto, cercando di sfogare la rabbia. Nelle conclusioni, come summa del messaggio del libro, si cita l’episodio di Gesù che perdona l’adultera nel Vangelo, rifiutandosi di scagliare la prima pietra: “Una crepa nella logica della giustizia, che costituisce un’anomalia cui dobbiamo continuare a tendere, in direzione ostinata e contraria”.

“Alla stazione successiva”, il viaggio dell’avvocato tra i capolavori di Fabrizio De André. Sognando una giustizia capace di abbracciare gli ultimi
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