C’è un filo che lega la sentenza in appello a Reggio Calabria del processo denominato ‘ndrangheta stragista e la presentazione, a Roma, dell’associazione familiari delle vittime della Falange Armata: un filo fatto di totale dedizione alla verità e alla giustizia che dovrebbe far riflettere la costituenda Commissione parlamentare antimafia. Sono due fatti slegati tra loro che la sorte ha fatto capitare in concomitanza il 25 marzo, ma a volte la sorte è benevola e nell’accostamento non voluto da alcuno c’è come un monito di cui dirò.
Ma andiamo con ordine e ricapitoliamo. Il 25 marzo la Corte di Appello di Reggio Calabria conferma la sentenza di primo grado del processo ‘ndrangheta stragista: ergastoli a Santo Rocco Filippone, boss di ‘ndrangheta, e a Giuseppe Graviano, boss di Cosa Nostra. L’Appello conferma l’impianto accusatorio sul quale ha lavorato il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo: gli omicidi dei carabinieri Fava e Garofalo sono la traduzione criminale dell’accordo tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta per portare avanti la strategia terroristico-eversiva cominciata con le stragi siciliane del 1992 proseguita per tutto il 1993 e interrottasi nel 1994 dopo il fallito attentato all’Olimpico di Roma e l’arresto a Milano dei fratelli Graviano.
Il 25 marzo a Roma Salvatore Borsellino, Stefano Mormile, Fabio Repici, tra gli altri, presentano la neo nata associazione dei famigliari delle vittime della Falange Armata, la sigla con la quale vennero “firmati” una serie impressionante di delitti appartenenti a quella stagione. Una serie che comincia con quello di Umberto Mormile, educatore del carcere di Opera, assassinato nel 1990 e che secondo la ricostruzione del procuratore Lombardo nel processo ‘ndrangheta stragista, altro non era che una invenzione della sezione del Sismi che si occupa di operazione coperte (e “sporche” dal momento che coinvolgevano all’occorrenza proprio le organizzazioni mafiose).
Nelle parole dei promotori dell’associazione sembra che si riflettano quelle del Procuratore Lombardo intervistato dopo la lettura della sentenza: se infatti Stefano Mormile sottolinea l’esigenza di rileggere sistematicamente tutti i crimini di quella stagione come manifestazioni di un disegno unitario che, aggiungo io, puntava a una nuova pacificazione tra mafie, pezzi di apparato che con esse avevano operato su mandato politico (niente di “deviato”!) e nuovi protagonisti della politica. Il Procuratore Lombardo evoca, con la doverosa prudenza, la possibilità di continuare il lavoro fatto accertando le responsabilità (anche politiche) più ampie su quei fatti di grande rilievo storico.
Il percorso, composto da sentieri autonomi, ora pare essere a un bivio inteso molto chiaramente tanto da Lombardo quanto dai promotori dell’Associazione: da una parte la possibilità di raccogliere ancora, nuove prove sufficienti sul piano penale a dimostrare unitarietà ed eversività del disegno criminale. Dall’altra il timore di dover constatarne l’impossibilità a causa del lungo tempo ormai trascorso dai fatti.
Di certo c’è la determinazione fin qui dimostrata dal Procuratore Lombardo, dalla Polizia giudiziaria, dai famigliari delle vittime, da certi giornalisti-giornalisti a strappare all’oblio quelle responsabilità, nonostante le immani difficoltà affrontate, comprese quelle determinate da alcuni improvvisi decessi che hanno caratterizzato questi dieci anni di lavoro (dal suicidio del tenente colonnello della Guardia di Finanza Omar Pace, fino agli infarti che hanno stroncato Giovanni Aiello, Amedeo Matacena, Armando Palmeri).
Di certo c’è la consapevolezza di una parte non insignificante di opinione pubblica sulla speciale gravità di quella serie di fatti, che hanno contribuito ad apparecchiare la tavola alla così detta “Seconda Repubblica”, la quale mi pare resti la cornice entro cui ci stiamo continuando a muovere, nonostante qualcuno abbia potuto pensare che ne fosse cominciata una “Terza” (magari!).
Davanti a questo scenario si giocherà, in un modo o in un altro, la credibilità della nascente Commissione parlamentare antimafia.
La Commissione parlamentare antimafia da un lato avrà a disposizione un enorme mole di materiale giudiziario cristallizzato dalla Cassazione al quale attingere per concorrere a ricomporre il quadro di quegli anni, dall’altro potrebbe adoperare il suo potere investigativo per raccogliere informazioni riservate e rilevanti anche sul piano giudiziario (mi perdonerete se non faccio esempi). In gioco c’è la capacità della democrazia di fare giustizia attraverso la verità.
L’alternativa è che da tutto ciò non si arrivi né a una verità giudiziaria, né ad una verità parlamentare, ma soltanto all’ennesima serie televisiva, come pare stia per accadere al marciatore italiano Alex Schwazer, dopo che il Tribunale che lo aveva assolto dall’accusa di doping, accreditando l’ipotesi che Schwazer fosse stato effettivamente vittima di un complotto volto a distruggerne la carriera e ad infangarne l’immagine pubblica, ha deciso di archiviare l’inchiesta contro ignoti proprio sul supposto complotto. Sembra infatti che Netflix stia per rilasciare a tutto il globo terraqueo una serie di quattro puntate sulla sua vicenda. La consolazione mediatica (meritata in questo come in altri casi) rischia però di fare rima sempre più con desolazione democratica.