L’ultimo ricordo che ho di Gianni Minà risale all’autunno del 2019, quando ci incontrammo alla Cgil nazionale in occasione di un incontro con Lula, allora da poco scarcerato dopo la losca montatura del giudice Moro e altri che gli costò il carcere e la presidenza, da cui fu defraudato a vantaggio dell’impresentabile Bolsonaro. Gianni era lì, come sempre, in prima fila nelle battaglie per la libertà, la democrazia e la giustizia. Ci eravamo conosciuti nel 2005, mi trovavo a Porto Alegre per il Foro sociale mondiale e seppi che mi aveva chiamato a Roma. Al mio ritorno lo chiamai subito e seppi che mi stava cercando perché sapeva del mio impegno per la liberazione dei Cinque patrioti cubani, gli agenti infiltrati da Fidel nelle file delle controrivoluzione di Miami, che avevano evitato molti attentati terroristici compiuti col sostegno di apparati spionistici statunitensi, poi arrestati e condannati a pene inverosimili per reati inesistenti, per essere finalmente scarcerati qualche anno fa colla mediazione di Papa Francesco. Di questa vicenda ho scritto più volte su questo blog, fino alla sua felice conclusione.

Gianni aveva appreso che ero stato a Miami nel 2004 per seguire il processo e mi proponeva una serie di iniziative sul tema. Fu così che potei incontrarlo varie volte a Milano, a Firenze, a Roma. L’iniziativa più bella e significativa fu probabilmente quella che organizzammo alla Camera dei Deputati con Leoluca Orlando, Luciano Vasapollo ed altri, ma ve ne furono tante, e fa davvero piacere pensare di aver contribuito in una qualche misura a una campagna che alla fine ebbe successo, ottenendo la liberazione dei Cinque eroi.

Gianni era certamente un grande giornalista, eticamente perfetto, l’esatto contrario del modello che oggi va purtroppo per la maggiore, quello del vile adulatore dei potenti e propagandista automatico del pensiero unico e ora anche della guerra: ce ne sono a bizzeffe ed escono oramai allo scoperto senza vergogna (basti vedere l’ultima scandalosa vicenda dell’aggressione al vignettista del Fatto Mannelli). Era anche una persona di interessi ampi e diversificati, sapeva tutto di tutto, dalla musica allo sport alla politica. Ascoltare i suoi racconti era come apprendere la storia in diretta, raccontata in modo accattivante, colla sottolineatura del dettaglio particolare e divertente che riusciva a riscattare anche le situazioni più tragiche e penose.

Ricordo una sera in una trattoria milanese subito dopo l’ennesima iniziativa per la liberazione dei Cinque, che si era tenuta alla Camera del lavoro, quando raccontò a me e agli altri commensali il suo viaggio in Argentina per i Mondiali di calcio nel 1978, in piena dittatura genocida di Videla & C. Ci disse che i militari avevano preso di mira lui e il suo gruppo, tentando di infiltrare addirittura delle spie al suo interno. Una di queste, una giovane di bell’aspetto, aveva chiesto a uno degli operatori che lo accompagnavano se fosse comunista e questo, mangiata la foglia, le aveva replicato “Ma no, io sono di Bologna”. Alla fine però, Gianni e i suoi avevano dovuto fuggire a gambe levate per evitare di essere sequestrati dai terroristi in divisa.

Gianni era disposto a correre questi e altri rischi, perché era un vero democratico, un antifascista irriducibile, un giornalista onesto e corretto, e un grande amico dell’America Latina e soprattutto di Cuba, primo Paese di quel Continente ad essere liberato dall’imperialismo statunitense (oggi se ne contano vari altri e l’elenco è in via di aggiornamento crescente e costante). Tutte doti, queste, che gli sono costate un esilio pressoché permanente dai tristi schermi della televisione nazionale, per non parlare del suo doppio berlusconiano e in tempi ben precedenti all’attuale obbrobrio meloniano. Televisioni che su questo come su altri temi non si peritano di mandare in onda balle colossali, coll’evidente scopo di mantenere il popolo nell’ignoranza. Il potere fintamente democratico che domina in Occidente e sta trascinando il mondo intero verso la catastrofe bellica, climatica o sociale, ha evidentemente in odio chi dice la verità, come dimostra la persecuzione di Julian Assange, perseguitato per aver chiarito tanti osceni e irreferibili retroscena, le vere motivazioni delle scelte del potere e il suo modo di operare per come esso è in realtà. Lo stesso ha fatto Gianni Minà.

Una volta gli dissi che a mio avviso il suo cognome veniva dall’arabo minà, che significa porto. Nomen omen, Gianni per tutti noi è stato un porto da cui salpare verso il mondo della verità e della giustizia, ma anche della bellezza, sportiva o artistica, abbandonando i deprimenti litorali battuti dai finti giornalisti al servizio dei potenti. La terra ti sia lieve, compagno Gianni!

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