La famosa agenda di Gianni Minà noi l’abbiamo vista, soppesata, perfino sbirciata. Correva l’anno 2008. Un tomo alto almeno tre centimetri che Minà portava sempre con sé sottobraccio. Uno scrigno segreto dove potevi trovare il numero di telefono di Fidel Castro e di Diego Maradona, di Gabriel Garcia Marquez e di Vittorio Gassman, di Muhammad Alì e Rigoberta Menchù. Minà, morto a 85 anni, è stato uno dei più grandi giornalisti italiani e forse molto di più. Uno che ha viaggiato il mondo più di un pilota d’aereo, parlando tutte le lingue – “ma male”, diceva – e che ha praticamente intervistato tutti i grandi miti del ‘900, attraversando con spontanea naturalezza e una verve intellettuale disinvolta e mai gocciolante dall’alto, la politica, lo spettacolo, lo sport, il cinema, la musica, la letteratura.
Aveva collaborato con tutti i più importanti quotidiani, dagli anni sessanta e fino ai primi del duemila, senza disdegnare quelli sportivi (diresse brevemente anche TuttoSport sul finire del secolo scorso), senza mai perdere la bussola del presente. Fondamentale però la carriera avuta in Rai. Entrato nel 1960 (“ricordo che non mi raccomandò alcun partito e credo che fin da allora fu un marchio d’infamia non essere lottizzato, e così rimasi precario per molti anni”), venne assunto definitivamente nel 1979, per poi essere sostanzialmente allontanato sul finire dei novanta (ci aveva raccontato lui stesso che era stato definito “ingovernabile” dai piani alti). Solo che Minà si era inventato due cosine da nulla: Blitz, dal 1981 a 1984 il programma di intrattenimento della domenica pomeriggio su Rai2 che faceva concorrenza alla Domenica In di Pippo Baudo; e poi tra il ’96 e il ’98 Storie, un vis a vis con grandi figure internazionali. Ma prima di arrivare al chi, come e cosa, va ricordato che come aveva spiegato più volte Minà sia a Blitz che a Storie i “grandi” ci andavano in “amicizia” perché si fidavano di lui, facendo risparmiare e non poco alla produzione gravosi ingaggi (ogni riferimento agli intervistatori di oggi è puramente casuale ndr).
Blitz ad esempio era uno di quegli spazi scenici dove veniva abbattuta la linea dei 180 gradi di demarcazione della tv classica per una amalgama inesauribile di glamour sempre un filo progressista, ma di quella sinistra vivace, nazionalpopolare, disinvolta e giocosa. Si vedano le apparizioni clamorose di Benigni (pre ciucca ecumenica anni novanta) e Troisi, pura poesia dell’intrattenimento davanti a quei microfoni sottili a becco di elefante, sempre immersi in un’atmosfera scherzosa, informale, ridanciana (Minà era spesso in cardigan, gli ospiti con il maglione e senza cravatta). L’elenco è d’obbligo, e sembra la cantilena con cui lo perculò Fiorello negli anni a venire. Intanto da Blitz passarono Eduardo De Filippo, Fabrizio De André, Adriano Celentano, Gian Maria Volonté, Ugo Tognazzi, Carmelo Bene, Pino Daniele, Ornella Muti, Gigi Proietti, Enzo Jannacci, Vasco Rossi. Solo per citarne alcuni. Mentre la memorabilia eleva tre puntate irraggiungibili: quella sulla musica brasiliana dove sbuca Toquinho (che duetta con Falcao), Antonio Carlos Jobim, Joao Gilberto e Chico Buarque de Hollanda (ma anche la Vanoni e Sergio Endrigo); un’altra dedicata alla moda italiana con Krizia, Gianfranco Ferrè, i Versace, Ottavio Missoni; o l’apoteosi cinema con Claudia Cardinale, Federico Fellini, Giulietta Masina, Sergio Leone, Ennio Morricone e Robert De Niro colti mentre girano gli ultimi loro film a Cinecittà.
Insomma, Minà conosceva tutti e li portava tutti in tv: sereni, rilassati, sorridenti. Un’altra epoca, un’altra vita per l’Italia e gli italiani. “Questo è il bello della diretta”, ripeteva in continuazione mentre Benigni lo coinvolgeva in lunghi monologhi o Leopoldo Mastelloni bestemmiava per la prima volta in tv. Poi dicevamo di Storie, altro sfizio che Minà si toglie in un amen. Gli dicono di riprendere le sue celebri interviste documentario, come quella a Fidel Castro, a Enzo Ferrari o a Tommy Smith, e lui porta in uno studiolo silenzioso e crepuscolare il Dalai Lama e Martin Scorsese, Luis Sepulveda e Naomi Campbell, John John Kennedy e Pietro Ingrao, Vittorio Gassman e Dacia Maraini. “Lavoravamo in tre: io facevo l’organizzatore, l’intervistatore, il facchino. Poi c’erano il fonico e il direttore fotografia – spiegava Minà ricordando i suoi documentari premiati anche al festival di Berlino – Per me il documentario è un film povero, è cronaca del vissuto. Stilisticamente credo che non ci sia bisogno di un montaggio frenetico come molti giovani di oggi fanno. Io poi preferisco l’improvvisazione alla sceneggiatura scritta come in un film normale”. Infine, oltre alla passione per il calcio, Minà era letteralmente travolto dal continente sudamericano. Qualcosa che va oltre le affinità elettive e il fermento politico. Un percorso di conoscenza, sentimento e intellettualità che si tramuterà in una storica rivista diretta dal giornalista torinese, Latinoamerica dove oltre agli storici amici di Gianni – Eduardo Galeano, Paco Ignacio Taibo II, Miguel Bonasso – si erano aggiunti nel tempo anche Noam Chomsky, Manuel Vazquez Montalban, Antonio Tabucchi e Pino Cacucci.