Molte esistenze finiscono incastrate in un paradosso. Ma solo pochissime riescono a trasformarlo nel proprio tratto distintivo. È stato così per Gianni Minà, l’uomo dal multiforme ingegno che ha affermato se stesso facendo parlare gli altri. Una vita trascorsa a raccontare le vite altrui, un’intervista dopo l’altra, un sorriso dopo l’altro, fino a modellare una personalissima idea di scoop: a far notizia non può essere il fatto pruriginoso, il pettegolezzo da recintare in un titolo, ma la vera essenza, o meglio l’anima, dell’intervistato. Tutto elevando sempre a sistema quell’aforisma che lui stesso aveva pronunciato qualche anno fa: “Il giornalista è un pochino vanitoso, perché deve raccontare cose che vorrebbe vivere lui”. È stato così fino a lunedì sera, quando la sua scomparsa non ha lasciato eredi professionali ma un’eredità gigantesca da maneggiare con cura. Perché la cifra del suo lavoro non va ricercata (solo) nella collezione di grandi nomi che ha fatto parlare, quanto nell’empatia. Quella che stabiliva con l’intervistato, certo, ma anche quella che si instaurava fra lui e il pubblico, con il cronista che diventava un semplice strumento per far fuoriuscire le emozioni dei due estremi del servizio: chi raccontava se stesso e chi ascoltava (o leggeva).

Re Mida della parola, per anni ha trasformato in notizia tutto quello che ha toccato. E lo ha fatto seguendo sempre una personalissima stella cometa. “Ero vorace – ha detto – volevo frequentare tutte le cose”. La curiosità diventa il suo motore. Si interessa di tutto, mantenendo intatto dentro di sé quello spirito da fanciullino di Giovanni Pascoli. D’altra parte la folgorazione era arrivata a 8 anni. Gianni era un bambino che seguiva il Tour de France e prendeva appunti su dei foglietti che poi dava agli amici. Solo che è molto più preciso di alcuni giornalisti affermati. È l’inizio non di una carriera, ma di un modo di vivere. Perché Minà ha riaffermato una dimensione ontologica della professione. Lui non ha fatto un giornalista. Lui è stato un giornalista. “Non ho mai lasciato questa idea di fare il cronista – ha raccontato qualche tempo fa alla Scuola Normale Superiore – e questo mi ha portato a raccontare storie che sono impossibili da smentire. Se il giornalista ha una morale suffraga le proprie affermazioni con delle prove. E il giornalista non scinde mai il privato dal pubblico”. La scalata è stata vertiginosa. A 19 anni entra a Tuttosport. L’anno dopo è già in Rai. È lì che Minà tratteggia la sua estetica. E più il suo curriculum diventa pingue, più la sua tecnica diventa affilata.

I suoi servizi diventano dei piccoli cult, la sua agendina zeppa di numeri una figura mitologica che incanta le redazioni. Lui non intervista personaggi famosi, lui crea legami che spaziano dal grande rispetto all’amicizia più sincera. Eppure non sempre gli va bene. Il primo incontro con Muhammad Ali è al limite della catastrofe. “La nostra amicizia nasce nello studio del suo avvocato e manager, Chauncey Eskridge – ha raccontato alla Normale – Avevo la presunzione del giovane giornalista che pensava di aver toccato il cielo. Ali mi rispondeva a monosillabi e io avevo capito che non avrei mai potuto mandare in onda quell’intervista. Dentro di me mi chiedevo: ‘Io sono una persona gradevole, dopotutto, perché lui mi risponde in maniera così sgradevole?’. Alla fine lui mi si avvicina e mi dice: ‘Non ti è piaciuta l’intervista, vero?’. Io gli risposi di no e lui mi domandò il perché. Dissi: ‘Perché non ho capito che carattere hai, cosa sei’. Lui cambiò espressione e mi rispose: ‘Credevo che fossi uno di quei giornalisti che viene dall’Europa e che vuole insegnarmi come devo vivere. Sono in debito con te di un’altra intervista”.

Con Diego Armando Maradona andrà diversamente. Fra i due si crea una connessione intima, un rapporto di fiducia assoluto. Diego parla con Gianni apertamente, sapendo che alcune cose non usciranno mai. Minà lo ripaga mostrandogli una vicinanza e una correttezza totali e totalizzanti. Quando Diego si sposa con Claudia Villafane, nel 1989, Gianni è fra gli invitati. Maradona è l’incarnazione di tutto ciò che attira il giornalista. Minà è attratto dalle figure perdenti, non in senso sportivo, ma reale. Ama i reietti, quelli che magari riescono a diventare più grandi dello sport che praticano ma che hanno un vissuto da emarginati, figure picaresche alla ricerca del riscatto. “A me piacciono i perdenti – ha ammesso – perché alla fine sono sempre i vincitori”. Diego e Gianni parleranno spesso davanti a una telecamera. E sempre in modo diverso. L’intervista storica è quella andata in onda il 25 novembre 1990 su Dribbling, quando il giornalista chiede all’asso argentino: “Diego, che ti succede?”. Ma ci sono altri due incontri che spiegano forse ancora come il giornalista sia riuscito a far uscire la vera essenza di Maradona. La prima si svolge durante i Mondiali del 1990, a Trigoria, sede del ritiro dell’Argentina. Maradona si sta allenando in palestra. Corre sul tapis roulant, fa pesi, esercizi posturali. Poi quando è in piedi Minà gli domanda: “Lo sai che nel momento in cui questa famosa pierna izquierda non sarà più capace di fare le magie che ha fatto per tutti questi anni tutta questa gente che ha dovuto subire il tuo carattere non ti vorrà neanche più salutare”.

Diego, sudato e con una gamba distesa, lo guarda e risponde: “Sicuramente non vivrò per il saluto di questi”. L’altra si svolge su una collinetta da dove si vede la sagoma di un’industria. “Questa è Napoli, la Napoli che lavora, questa è l’Italsider, e tu sei riuscito a entrare nel ventre di questa città come se fossi nato qui”. Diego incrocia le braccia sul petto e dice: “Mi fanno sentire come uno di loro. Mi sono trovato molto bene ma qui non c’è un equilibrio. Qui ti amano o ti ammazzano, nel senso calcistico. Fai un gol e sei il più forte del mondo, sbagli e non sei un campione. Ma io alla gente di Napoli devo dire grazie per tutto quello che fanno per Maradona”. E a distanza di anni è ancora difficile trovare un qualcosa che racconti meglio la simbiosi fra Napoli e Maradona meglio di quella chiacchierata con vista sullo stabilimento di Bagnoli. I servizi di Minà sono caleidoscopici. Perché raccontano la realtà vista attraverso una lente dell’insolito e dell’inusuale. Quando la Sampdoria vince lo scudetto nel maggio del 1991, Gianni segue per tutta la giornata Paolo Villaggio, tifoso blucerchiato. I due vanno allo stadio insieme, con l’attore avvolto in un doppiopetto blu con una ingombrante coccarda all’occhiello sinistro. È tutta colorata. Bianco. Rosso. Blu. Nero. “Mi dovrei vergognare – dice Villaggio a Minà – io sono un intellettuale di sinistra, dovrei vivere queste cose con un certo distacco. Però è dura, non si può”. E ancora: “Io non credo in Dio ma da oggi credo alla Sampdoria”. È un servizio che rimarrà nella storia.

Così come era avvenuto qualche tempo prima a Biltz. Gianni aveva invitato Ugo Tognazzi e suo figlio Ricky. L’intervista era partita con il ragazzo che definiva il padre la persona più divertente del mondo. Qualche minuto dopo era entrato anche Raimondo Vianello, grande amico di Tognazzi. Poi interviene il regista Marco Ferreri che dice: “Io ho portato nasi!”. Si va avanti così per qualche minuto, a parlare di cinema e di prospettive. Con Raimondo che indossa narici di maiale, Ugo con un naso finto con i baffi e gli occhiali, Ricky che lancia coriandoli. Solo che il tono della trasmissione resta sempre alto. Così come avviene con Franco Battiato, intervistato su Rai Due. “È venuto fuori che tu non credi nella ragione di Stato”, dice Minà. Il cantante lo guarda e sorride: “Proprio no, sono un antiwagneriano costituzionalmente. Per non ammazzare un uomo farei andare uno Stato in miseria”. Minà si inserisce di nuovo: “Qualcuno sta rabbrividendo!”. Battiato fa spallucce e dice: “Rabbrividisca pure”. È proprio qui che il lavoro di Minà trova il suo compimento: perché scardina tutti i canoni della televisione pubblica e statale di quegli anni, mette a nudo personaggi, racconta i loro convincimenti su temi che possono essere grandi o piccoli, ma che grazie anche alle sue domande riescono a non essere mai banali. Ed è proprio questo che rimane di lui. Perché l’uomo che faceva parlare gli altri si è spento lunedì sera, nel bel mezzo di un’epoca dove c’era più bisogno di lui, in un modello di comunicazione dove tutti parlano di se stessi attraverso i social e con frasi preconfezionate, dove l’arte della provocazione è stata plastificata. Ma almeno la sua eredità non potrà essere dispersa.

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