Durante le ricerche sulle alluvioni d’Italia, dall’unità dal terzo millennio, mi sono imbattuto in parecchi studiosi di cultura anglosassone affascinati dall’Italia delle catastrofi, naturali e non. Per esempio John Dickie (University College London) ha scritto che la penisola, per ragioni storiche e ambientali, è la nazione europea più incline ai disastri. E come la narrazione apocalittica prodotta da questa inclinazione abbia giustificato i maggiorenti, media e intellettuali, nell’esaltare l’eccezionalità degli eventi in quanto diversità intrinseca del paese. Dalle alluvioni ai terremoti, l’urgenza ha sovente messo da parte l’importanza chiudendola nel cassetto delle cose buone da fare, ma che non si faranno mai a favore dell’urgenza. Lo spettro della siccità che agita l’Italia settentrionale potrà opporsi a questo destino? Ne dubito.

In tema di crisi idrica, il tono apocalittico di politici, imprenditori e media non conforta affatto. Molto più facile classificare come emergenza ciò che non si è saputo prevedere e mitigare con la pianificazione, il lavoro quotidiano e la competenza. Dalle guerre alle siccità, dai crolli alle frane, dalle pandemie alle crisi finanziarie, l’urgenza reclama giocoforza scelte d’occasione. E giustifica anche iniziative poco oculate e talora insensate, ma capaci di mobilizzare un sacco di soldi abusando della credulità popolare. La logica politica e imprenditoriale che ha aggravato i problemi può risolvere la situazione critica? La risposta è negativa, se politici e imprenditori continueranno a etichettare come emergenziale una questione affatto cronica che bisognerebbe curare con provvedimenti a medio e lungo termine.

E le urgenti medicine alternative sono talora lo specchio per le allodole dei buoni affari, come il lancio mediatico della desalinizzazione, se promossa quale panacea di ogni questione idrica. “Se Milano avesse il mare sarebbe una piccola Dubai”. L’aforisma, frutto della sottile ironia di un mio collega della Magna Grecia, fotografa sia il recente passato, sia il luminoso futuro della urbanistica, dell’economia e della società milanese del terzo millennio. In effetti, Dubai è alimentata quasi esclusivamente da acque marine dissalate. A Dubai, però, piove poco più del cinque percento di quanto piova a Milano. E, a Dubai, metà di quella pioggia cade tutta a febbraio.

Gli impianti più avanzati (p.es. Carlsbad in California) richiedono circa tre chilowattora di energia per ogni metro cubo d’acqua desalinizzata. Se, con un prodigioso balzo nel futuro, Milano decidesse di sposare il modello idrico di Dubai, quanta energia consumerebbe per desalinizzare? Circa 660 milioni di chilowattora all’anno, poiché l’acquedotto milanese distribuisce 600mila metri cubi d’acqua potabile ogni giorno. Se fossero chilowattora termici fanno 467mila tonnellate di emissioni di CO2 equivalente.

Equivalgono a più di 100mila auto in circolazione, ovvero a 14 milioni di litri di benzina o 12 di gasolio; ovvero a 233mila tonnellate di carbone. Attualmente, il mondo conta su 21mila impianti di dissalazione che producono 142 milioni di metri cubi di acqua dolce al giorno usando varie tecnologie. Una quantità pari a l’uno per cento del consumo mondiale. Non è poco, ma poco rispetto ai consumi del pianeta: l’umanità usa 11 miliardi di metri cubi di acqua al giorno per soddisfare la domanda agricola (sette decimi), industriale (due decimi) e municipale (un decimo). Il ruolo di queste tecnologie è rilevante, ma vanno applicate in modo appropriato. Sono indispensabili nei climi aridi e nelle geografie isolate e certamente utili in situazioni critiche dove le acque meteoriche non bastano a sostenere la domanda locale di una comunità.

Benvenute, per esempio, nelle piccole e medie isole alimentate da bettoline nella stagione turistica. A larga scala, senza energia gratuita e impronta ecologica neutra, questa tecnologia ha poco senso nonostante gli enormi progressi degli ultimi vent’anni. A lungo termine, inoltre, l’impatto sulla popolazione suscita qualche interrogativo sanitario documentato da varie ricerche israeliane, dove queste tecnologie hanno già una storia consistente: secondo alcuni ricercatori vanno esplorati a fondo gli effetti della de-mineralizzazione in relazione ad alcune malattie. A differenza di Milano, Genova il mare ce l’ha.

Eppure, nella torrida estate del 2022, imprenditori e istituzioni avevano indicato Genova quale test-site ideale di un new-deal idropotabile basato sull’acqua marina senza sale. Peccato che l’acqua immessa in rete dal gestore unico del Genovesato sia scesa di quasi il 20 percento negli ultimi cinque anni – da 85,4 nel 2016 a 71,5 milioni di metri cubi annui nel 2021. Senza contare che, durante la grande secca europea del XX secolo (1976-1977) quando fui incaricato di prevedere l’impredicibile, la domanda cittadina era doppia rispetto all’attuale: l’enorme consumo era dovuto alla siderurgia a caldo, orami scomparsa, e alla presenza di circa 820mila abitanti, contro 560mila odierni.

Nelle zone costiere del mondo, in crescita demografica a tassi assai superiori alla media, la dissalazione giocherà un ruolo importante solo se ecologicamente ed energeticamente neutra. Altrimenti manterrà una rilevanza affatto marginale simile a quello di altre tecnologie altrettanto antiche, ma rivitalizzate dal sapere scientifico e tecnologico, come la cattura dell’umidità atmosferica. Una pratica dalla consolidata tradizione olistica nelle zone aride di vari paesi come Cile, Marocco e India. L’umidità dell’aria si può catturare sia dalla nebbia, come sempre si è fatto, sia dalla rugiada utilizzando conoscenze fisiche moderne.

E se si impiegano tecnologie e materiali moderni per migliorare l’efficienza di entrambi i sistemi funziona bene: l’atmospheric water harvesting, il raccolto dell’acqua atmosferica può costituire un’alternativa efficace e sostenibile per il rifornimento idrico di zone particolarmente aride. Paragonare il modello israeliano all’Italia è poco verosimile. Non solo il clima israeliano è più caldo, ma le precipitazioni italiane sono più del doppio di quelle israeliane. Gli italiani sono fortunati perché ricevono dal cielo – ogni anno, anno più anno meno – circa 280 miliardi di metri cubi di acqua dolce sotto forma di precipitazioni, liquide e nevose: each raindrop is a kiss from Heaven”, ogni goccia di pioggia è un bacio dal cielo diceva Friedensreich Hundertwasser. Dopo Slovenia, Irlanda, Austria e Croazia, l’Italia è il paese europeo dove piove (e nevica) di più. Più che in Francia e Germania, e il 7 percento più che nel Regno Unito dove, nell’immaginario collettivo piove sempre. E perfino il 25 percento più che negli Stati Uniti. Trascuravo un particolare.

A Milano paghiamo la fornitura dell’acqua potabile, di ottima qualità, mediamente 15 centesimi di euro ogni metro cubo. Il servizio è eccellente e garantito ai cittadini la metropolitana milanese, una società di proprietà pubblica con i due conti a posto. Se l’acqua locale, assicurata dalla ricca falda profonda, fosse sostituita con l’acqua dissalata della Liguria pagheremmo lo stesso metro cubo con una banconota. Nessuno dubita che dai rubinetti milanesi scenderebbe acqua dolce di qualità altrettanto buona, ben dissalata e ben pompata. Ma l’acqua del rubinetto avrebbe comunque un retrogusto parecchio salato per il nostro portafoglio.

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