Mentre la top ten dei botteghini italiani dà ragione a blockbusters più e meno riusciti come John Wick 4, Creed 3, Shazam 2 e l’uscente Scream 6 (ironie numerologiche a parte) e a felici fenomeni come il thriller nostrano L’ultima notte di Amore con Pierfrancesco Favino, oggi parliamo invece di tre film validissimi usciti il 23 marzo che sono rimasti fuori dai fasti del box office settimanale, pur avendo molto da dire. Iniziamo dall’Italia paludosa di Delta, thriller ambientalista di Michele Vannucci con l’accoppiata inedita Luigi Lo Cascio e Alessandro Borghi. Siamo sul delta del Po dove una comunità composta da pescatori e guardie ittiche volontarie si scaglierà contro un gruppo di pescatori di frodo venuti dall’Est. Nelle stesse parole del regista la sua seconda opera appare davvero come “un western fluviale, un conflitto contemporaneo tra comunità indigena e forestieri in lotta lungo la frontiera”.
Borghi barcarolo è ancora nella fase fisica rocciosa da montanaro, ma camaleontico come sempre nella lingua. Fa un misterioso slavo che parla anche veneto, mentre il personaggio coscienzioso di Lo Cascio rappresenta la difesa di un ambiente fragile, ma mai quanto le relazioni umane che restando fedeli agli ideali rischiano di portarsi a estremi inimmaginabili. Così le scelte di fronte alla violenza si diramano in un delta di possibilità immerse nel fango dell’anima. Lì dove nessuno può arrivare senza sporcarsi. Neanche lo spettatore, al quale viene chiesto d’immergere a sua volta sabbia e polvere dei western sedimentati nel proprio immaginario nelle acque fluviali di questa storia dura quanto determinata a ricostruire sul grande schermo uno degli scenari ambientali italiani più sconosciuti. Il Po come non lo avevamo mai visto: in una storia che sconvolge quanto The Road di John Hillcoat e Out of the Furnace di Scott Cooper.
Allarghiamo il nostro sguardo all’Europa. 2028: la ragazza trovata nella spazzatura è un distopico che affonda gli aghi nello sci-fi senza bisogno di mostrarci effetti visivi. In questo piccolo Blade Runner polacco viviamo in una dittatura dove i crimini vengono puniti con dei collari che iniettano una sostanza capace di privare le persone di volontà, memoria e identità trasformandole in automi. Quindi schiavi. Una di loro si ritrova senza il suo padrone fuggitiva e pericolosa per la società, ma ingenua e pura come una neonata verrà trovata da un attivista sociale diventato famoso per aver annunciato il suo imminente suicidio in diretta online per protesta a favore dei diritti umani degli automi. Inizia così un road movie impensabile, una fuga alla scoperta della vita e di sé stessi, per l’uno e per l’altra.
Michał Krzywicki e Dagmara Brodziak hanno scritto e interpretato insieme il film e i suoi due protagonisti, mentre il primo lo ha diretto. Quest’opera prima, nella sua semplicità e immediatezza si rende notevole in forma e sostanza. Nella sostanza racconta la relazione tra una donna che dovrà rinascere alla vita dalla schiavitù e di un uomo che vuole togliersela con un atto di protesta estrema. Questa forbice narrativa si può provare a interpretarla come sottile manifesto cinematografico contro un governo polacco di destra, ma anche come visione europea verso l’autodeterminazione degli ultimi oltre il confine.
Nella forma vengono incrociati diversi generi per un’idea di cinema che stringe tra le dita l’essenzialità di una storia, il respiro e gli occhi persi di personaggi sospesi tra idealismo e mondo apparentemente ostile. In questo apparentemente c’è l’ottimismo degli autori verso le persone e il futuro. Senza contare il passo di 2028. Se in Blade Runner i replicanti anelavano all’indipendenza e ai sentimenti, se in Farennheit 451 si aspirava al recupero della memoria, se nel Pianeta delle Scimmie i primati ambivano alla libertà dal sopruso e se in Minority Report si guardava al futuro spremendo i poteri di pochi. Oggi con 2028 abbiamo un nuovo metaforico affresco sull’autodeterminazione dell’individuo contro una società comodamente castrante. Una composta protesta artistica contro l’attualissima deumanizzazione delle persone.
Concludiamo attraversando l’oceano fino alla New York 1980 di Armageddon Time. Compone un ritratto familiare punteggiato di suggestioni autobiografiche James Gray. Al centro il coming of age di un ragazzino tra nuova scuola imposta dei genitori e l’amicizia con un coetaneo, ma nero e proveniente da uno slum, da qui l’incipit per mostrare senza fronzoli razzismo, supremazia bianca e giudaismo di un’America borghese e perbenista divisa tra reaganiani e democratici. Senso di colpa, scelte obbligate e disparità sociali circonderanno il giovane Paul.
Scorrimento tenue e regia senza forti scossoni o cambi di registro, mantiene la sobrietà di un romanzo di formazione e dei classici spaccati famigliari americani. Compongono un cast granitico Anthony Hopkins, Anne Hataway, Jeremy Strong e Jessica Chastain, cameo nei panni saccenti della sorella di Donald Trump. Benché il suo protagonista, Paul, sia il bambino prodigio Michael Repeta, talento già notevole in Black Phone, il film potrebbe attrarre più spettatori agée che giovani. Forse il punto debole del prodotto. Infatti per ora ha raggiunto il nono posto nel box office italiano soltanto nella giornata di martedì 28.