“La legge sottrae la procura al controllo della stampa” – Per il giurista il male oscuro di questa legge è che ha trasformato uno di questi beni costituzionali in “una sorta di diritto tiranno a cui gli altri interessi e diritti si devono piegare e che invece nel tradizionale equilibrio stavano insieme”. Ovvero il bilanciamento tra il diritto a informare, a essere informati e quello di garantire la presunzione di innocenza delle persone sottoposte a indagini: un delicato equilibrio che è già parte del codice penale, oltre a essere sancito dal codice deontologico dei giornalisti. Ma forse il punto più critico della legge bavaglio è per Vigevani il fatto che lasci “un arbitrio al procuratore della Repubblica“: secondo il professore il fatto che sia il capo della procura ad avere il potere di consentire la diffusione per “specifiche ragioni di interesse” di una determinata notizia, fa venire meno il principio per cui il pubblico ufficiale titolare di indagine “è il primo soggetto su cui deve vertere il controllo dell’opinione pubblica e quindi del giornalista“. In pratica nessuno potrà contestare agli inquirenti di aver fatto scelte sbagliate o magari aver violato la legge se quelle scelte non sono stare rese note. Per il semplice fatto che, con la legge Cartabia, è il capo degli inquirenti a decidere cosa rendere noto o cosa invece tenere chiuso nei cassetti. In questo senso il decreto sottrae di fatto l’autorità giudiziaria al controllo della stampa. Non solo: anche le cosiddette specifiche ragioni di interesse sono “un criterio sfuggente perché ogni inchiesta penale è di interesse pubblico”, continua Vigevani. “Io – spiega il docente – faccio fatica a vedere indagini che non siano di interesse pubblico. Con questa norma tutto è lasciato all’arbitrio di un soggetto che non è terzo e potrebbe avere anche interesse a nascondere il suo operato. E questa va al di là della presunzione di innocenza“. Secondo Vigevani, dunque, l’obiezione di costituzionalità riguarda questo “potere arbitrario a fortissima discrezionalità” mentre dovrebbe prevedere e bilanciare “interessi contrapposti“.
Le strade per arrivare alla Consulta – Come fare però per arrivare davanti alla Consulta, visto che come è noto non è prevista l’ipotesi di un ricorso diretto? Secondo il docente si potrebbe impugnare un procedimento disciplinare a carico di un magistrato accusato di aver violato uno dei divieti introdotti dal decreto. La legge, infatti, impone una serie di conseguenze per chi non segue le norme: si parla di “sanzioni penali e disciplinari”, “obbligo di risarcimento del danno” e “rettifica della dichiarazione resa”. In alternativa i cronisti, l’Ordine dei giornalisti e gli editori potrebbero impugnare un possibile rigetto a una formale richiesta di informazioni avanzata nei confronti di un ufficio inquirente. Impugnazione possibile davanti al giudice amministrativo: così la direttiva del procuratore, che recepisce il decreto sulla presunzione d’innocenza, potrebbe essere portata al Tar. A quel punto si potrà sollevare questione di legittimità Costituzionale: “Sembra una via tortuosa, ma possibile per portare la norma davanti alla corte”. Un’azione non semplice visto che le direttive dei capi delle procure dovevano essere impugnate entro 60 giorni dall’introduzione, ma nessuno lo ha fatto. Un’ulteriore ipotesi sarebbe quella di fare un “esposto Csm sulla discrezionalità incontrollata dei procuratori” e in virtù di “un’assenza parametri per cosa sia di interesse pubblico”. D’altra parte è abbastanza anomalo che sia un magistrato a decidere quale indagine può avere un impatto sulla vita dei cittadini e dunque merita di essere trattata come una notizia di cronaca. Un po’ come se ai giornalisti toccasse l’esercizio dell’azione penale.