I soldi degli italiani hanno favorito i crimini contro l’umanità commessi in Libia, anche da autorità come la Guardia costiera che i nostri governi finanziano, formano ed equipaggiano, mentre “lavora in stretto collegamento con i trafficanti di esseri umani”. Lo dice il rapporto finale dell’indagine degli esperti incaricati dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, acquisito dalla Commissione indipendente per i diritti umani e inserito nel dossier sul quale indaga la Corte penale Internazionale dell’Aja, che potrebbe presto emettere richieste d’arresto internazionali. Per l’Italia, la documentazione raccolta è anche un duro bilancio. Perché il cosiddetto Memorandum sui migranti firmato insieme al governo di Tripoli è appena stato rinnovato per la sesta volta e più di 100 milioni di euro sono stati investiti finora nella Guardia costiera libica. Il cui ruolo non smette di essere magnificato, anche dal governo Meloni e dal suo ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Ben altro emerge dall’indagine della Missione Onu, che in tre anni ha raccolto prove su casi di “detenzione arbitraria, omicidio, tortura, stupro, schiavitù, schiavitù sessuale e rapimenti” ai danni di libici e migranti. E sulla collusione delle autorità con contrabbandieri e gruppi armati di miliziani cui la Guardia costiera, sotto compenso, consegna i migranti intercettati in mare, che spariscono nei centri di detenzione delle stesse organizzazioni che gestiscono il traffico. Doveroso domandarci se l’immigrazione irregolare la stiamo contrastando o finanziando. Quanto alla violazione dei diritti umani, le torture, la schiavitù sessuale di donne e bambine, una volta per tutte non ci sono dubbi: nel corso della presentazione del rapporto a Ginevra, gli investigatori Onu hanno chiarito che gli Stati europei non sono stati ritenuti responsabili, ma “il sostegno da loro fornito ha favorito i crimini commessi“.
“Il carattere continuo, sistematico e diffuso dei crimini documentati dalla Missione spinge a ritenere che il personale e i funzionari della Direzione per la lotta alla migrazione illegale, a tutti i livelli, sono coinvolti”, si legge nel rapporto pubblicato il 27 marzo. Inoltre, “la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il contrabbando hanno generato entrate significative per individui, gruppi e istituzioni statali”. Quanto alla Guardia costiera, “ha lavorato in stretto coordinamento con le reti di contrabbando e traffico in Libia”. Più nel dettaglio, il rapporto “ha portato alla luce prove di collusione tra la Guardia costiera e i responsabili dei centri di detenzione” dove hanno luogo crimini contro l’umanità. Nel corso dell’indagine sono state raccolte centinaia di testimonianze. Secondo le parole di un migrante detenuto nei centri di detenzione di al-Maya, Ayn Zarah e Gharyan, “la nostra preoccupazione non è quella di morire in acqua, ma quella di tornare in prigione dove saremo oppressi e torturati dalle guardie”. Nelle loro conclusioni, gli esperti Onu invitano le autorità Ue a rivedere le loro politiche nei confronti della Libia. Finora, a commentare si è disturbata solo la Commissione europea, che attraverso un suo portavoce ha fatto sapere di prendere seriamente il contenuto del rapporto. Ma nega di aver finanziato direttamente la Libia “proprio per le ragioni emerse nel rapporto” e aggiunge che “i quattrini dei contribuenti europei non finanziano il business model del trafficanti”.
Intanto in Nord Africa i soldi continuano ad arrivare. E dopo la tragedia del naufragio di Cutro la Commissione europea si è detta pronta a rilanciare. In una lettera della presidente Ursula von der Leyen al premier Giorgia Meloni c’è l’impegno per “un ulteriore sostegno alle capacità di ricerca e salvataggio della Libia”. A febbraio la Commissione, insieme alle autorità italiane, aveva già consegnato le ennesime motovedette alla Guardia costiera libica, annunciando uno stanziamento di 800 milioni di euro per il Nord Africa entro il 2024, con investimenti diretti in Egitto, Tunisia e Libia. Tutto alla luce del sole, o quasi. Il 21 febbraio il ministro dell’Interno Piantedosi ha incontrato il suo omologo nel governo di Tripoli, Imad Mustafa Trabelsi. “Prima riunione operativa che segue al rilancio del dialogo strategico tra i due Paesi, in materia migratoria e di sicurezza”, ha scritto il Viminale. Trablesi, designato agli Interi dal premier Abdul Hamid Dbeibah, è a capo del sistema che controlla i centri di detenzione e la Guardia costiera, nonché il principale referente dell’Italia nel contrasto all’immigrazione irregolare. Ma il nome di Trablesi compare già in un rapporto dell’Onu che nel 2018 verrà confermato dal dipartimento di Stato Usa. Secondo le Nazioni Unite avrebbe gestito il traffico illegale di petrolio beneficiando di “fondi ottenuti illegalmente”. Tanto che gli incarichi di governo hanno innescato le proteste della Commissione nazionale per i diritti umani in Libia (Nchrl) che ha accusato col presidente Dbeibah di aver nominato “uno dei peggiori violatori di diritti umani e del diritto umanitario internazionale”.
Ai primi di marzo, pochi giorni dopo il vertice con Piantedosi, Trablesi veniva fermato all’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi con mezzo milione di euro in contanti in una valigia. Rilasciato senza aver dato spiegazioni sul denaro, il ministro libico ha poi negato che il fermo fosse avvenuto. Per organizzazioni come Amnesty International il capo della milizia di Zintan è uno dei più potenti trafficanti in circolazione, responsabile di violenze, torture e sparizioni forzate ai danni di migranti e rifugiati. Per il nostro governo, che continua a riceverlo con tutti gli onori, è il garante dei soldi che investiamo nella lotta contro i trafficanti di esseri umani. “Il mandato della missione – chiude il rapporto Onu – termina quando la situazione dei diritti umani in Libia si sta deteriorando, stanno emergendo autorità statali parallele e le riforme necessarie per sostenere lo stato di diritto e unificare il Paese sono ben lungi dall’essere realizzate”. Mentre in Italia aumentano gli sbarchi dei migranti (27.219 al 29 di marzo), i nostri soldi continuano a viaggiare in direzione opposta, verso le autorità libiche sotto indagine all’Aja per crimini contro l’umanità: i conti non tornano.