I Talebani, sempre più ansiosi di mostrare la loro presunta capacità di portare benefici agli oltre 40 milioni di abitanti dell’Afghanistan, hanno iniziato a spingere il pedale dell’acceleratore su un’opera che rischia di compromettere il fragile equilibrio idrico centroasiatico. D’altro canto, i benefici dell’iniziativa per i coltivatori afghani sarebbero innegabili. L’opera in questione è il canale Qosh Tepa, infrastruttura che consentirà di prevelare parte del flusso idrico del fiume Amu Darya, il principale corso d’acqua della regione, per garantire una migliore irrigazione a oltre 500mila ettari di territorio afghano. Al canale, che una volta completato sarà lungo quasi 300 chilometri, stanno lavorando migliaia di persone, uno sforzo messo in campo anche per garantire tutto il ritorno d’immagine possibile al movimento fondamentalista tornato al potere in Afghanistan nell’agosto 2021.

Come detto, l’Amu Darya è il principale fiume regionale e una fonte idrica insostituibile per tutti i Paesi toccati dai suoi 2.650 chilometri, nonostante il flusso che lo caratterizza sia calato negli ultimi decenni. Il corso d’acqua nasce sulle montagne del Pamir al confine tra Tagikistan e Afghanistan, prima di attraversare l’Uzbekistan e il Turkmenistan per giungere infine nei pressi di quello che rimane del Lago D’Aral. Le autorità uzbeche, dalla salita al potere dei Talebani tra le più concilianti a livello internazionale nei loro confronti, sono le più preoccupate dalla possibile realizzazione del canale Qosh Tepa: nei giorni scorsi una delegazione di Tashkent è giunta in Afghanistan per cercare di trovare una mediazione, dato che l’impatto maggiore dell’opera ricadrebbe sulle spalle dei contadini uzbechi. A parole, è emersa la volontà dei Talebani di cooperare con i vicini in accordo con le norme internazionali. Una posizione curiosa, considerando che l’Afghanistan non è firmatario di alcun accordo regionale o internazionale sull’utilizzo dei bacini idrici. Una situazione che lascia ai leader di Kabul tutti i margini di manovra possibili, a scapito dei vicini regionali.

Il clima in merito alla gestione idrica in Asia Centrale è al momento sotto controllo, ma in un passato anche molto recente non sono mancate fiammate che hanno portato sull’orlo della guerra alcune delle repubbliche dell’area. Fino al 2016, anno di salita al potere in Uzbekistan di Shavkat Mirziyoyev, aperto alla cooperazione regionale, la tensione si è alzata particolarmente tra il Paese e il Tagikistan in merito alla realizzazione della diga Rogun. In corso di costruzione da parte dell’italiana Webuild, una volta completata (si parla del 2028), con i suoi 335 metri, sarà la diga più alta del mondo e consentirà al Tagikistan di produrre 3.600 Megawatt di energia elettrica. Fino alla scomparsa di Islam Karimov nel 2016, l’Uzbekistan si è opposto con toni estremamente duri all’opera per timore delle ricadute idriche domestiche dell’infrastruttura, arrivando a un passo dal rispondere utilizzando la via militare a una minaccia percepita come esistenziale. Un altro caso più recente ha riguardato il sempre Tagikistan, questa volta in un confronto militare con il Kirghizistan che nell’aprile 2021 ha lasciato dietro di sé decine di vittime. Causati da questioni di confine più ampie, i pesantissimi scontri sono stati legati anche alla contesa sulla gestione di numerosi bacini idrici sulla frontiera tra i due Paesi che ancora attende una demarcazione ufficiale.

D’altronde l’Asia Centrale è sempre stata divisa in due: Tagikistan e Kirghizistan ricchi di risorse idriche e Uzbekistan, Kazakistan e Turkmenistan con un’ingente dotazione di materie prime come petrolio e gas naturale ma costretti a fare i conti con una costante penuria di acqua. Per ragioni anche di dominio politico, la burocrazia sovietica sviluppò un settore agricolo che portò questi tre ultimi paesi a diventare dipendenti dai primi due per irrigare le coltivazioni di cotone sempre più diffuse. Un sistema di interdipendenza che ha tenuto fino al dissolvimento dell’Urss, quando gli inediti margini di manovra nelle mani degli autocrati locali hanno generato l’attuale tensione più o meno latente.

Tornando all’Afghanistan, il Paese è storicamente afflitto a sua volta da una carenza idrica aggravata dal disastroso stato dei depositi e della rete infrastrutturale di trasporto interna. Se a questo si aggiunge che i Talebani hanno assegnato alcune posizioni chiave nel settore ambientale a mullah senza alcuna comprensione delle questioni climatiche o della concreta gestione di materie prime preziose come l’acqua, si capisce bene il rischio che la popolazione afghana corre. Vi è da dire che, mai come nel caso del canale Qosh Tepa, la situazione va analizzata cogliendone le sfumature. L’opera è molto importante per il settore agricolo afghano, ma ha il potenziale geopolitico per far tornare agli onori delle cronache incidenti legati alla gestione dell’acqua nella regione. Altrettanto importante è capire se i recenti annunci relativi all’opera da parte dei Talebani non siano legati semplicemente alla volontà di questi ultimi di alzare la posta con i Paesi confinanti, per ottenere contropartite immediate che sicuramente non andrebbero a vantaggio dei sempre più martoriati cittadini afghani.

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