di Francesco Galeazzi
Negli ultimi anni si è assistito, soprattutto da quando è nato il reddito di cittadinanza, a un’ascesa di coloro che, considerando il lavoro come unica fonte di vita, disprezzano quelli che un lavoro non riescono a trovarlo o che per un motivo o per l’altro non possono nemmeno averlo; sto parlando dei percettori del reddito di cittadinanza. Gli stakanovisti locali, dall’alto della loro superiorità morale, ritengono che quest’ultimi non siano altro che nullafacenti che preferiscono bighellonare anziché darsi da fare, parassiti a cui piace vivere alle spalle degli altri e che per questo devono accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione.
Lungi da me fare una ricerca psicologica sulle cause che stanno dietro a queste considerazioni. Mi piacerebbe aprire una riflessione, però, sulle motivazioni che possono aver portato a considerare il lavoro al pari di una religione. Le cose da dire sarebbero tante ma per una questione di spazio ho dovuto fare una cernita.
Chi sacrifica il proprio tempo per il lavoro, chi lo dedica al servizio di dio Efesto, viene considerato una persona da ammirare, a cui vengono elargiti onori misto a compassione. Hannah Arendt nel suo saggio Vita Activa sostiene che la considerazione che abbiamo del lavoro è cominciata a cambiare intorno al ‘600 con Locke, in un periodo in cui si aveva l’ idea che il lavoro fosse la fonte di ogni proprietà. Proseguì poi con Adam Smith quando disse che esso era la fonte di ogni ricchezza e terminando con Marx attraverso l’elaborazione del “sistema del lavoro”. Questa concezione ha portato a considerare il tempo non dedicato al lavoro come tempo perso, facendo perdere agli esseri umani lo strumento che permetteva di dare un senso all’agire umano: la dimensione politica. Perché se esiste solo il lavoro che dà senso alla nostra esistenza, solo il lavoro è matrice del benessere e della felicità, tutto ciò che riguarda la dimensione relazionale non viene preso in considerazione ma anzi, viene considerato per l’appunto una perdita di tempo.
Questa importanza data al lavoro ha rappresentato, secondo l’autrice, un grande pericolo, perché ha sottratto spazio, energie e tempo all’azione pubblica, a tutto quello che gli esseri umani possono creare insieme al di fuori dei processi lavorativi. Questa visione non avrebbe permesso di comprendere la fugacità delle cose e dedicare magari una parte della propria vita a qualcosa che sarebbe stato in grado di trascendere i rapporti di produzione.
Uno degli scienziati, a mio avviso, che sono arrivati più vicino alla teoria di considerare il lavoro al pari di una religione è Max Weber quando, dopo aver avuto quasi un esaurimento nervoso per il troppo lavoro, questo lo spinse a interrogarsi sulle origini dell’importanza del lavoro. Nel libro L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, il sociologo scrisse che i calvinisti del ‘600 ritenevano che le attività dedicate all’ozio, al gioco d’azzardo e agli alcolici fossero immorali, perciò le misero al bando spingendo gli accidiosi ad adeguarsi ad una disciplina severa. Il lavoro, in particolare, era il mezzo che li avrebbe resi buoni cristiani. Oltretutto, la ricchezza prodotta sarebbe stata un segno di Dio come apprezzamento per i loro sforzi.
A prescindere da come la si pensi a proposito del lavoro, una cosa è certa: esso è diventato talmente centrale nella vita di ognuno di noi tanto da averci fatto perdere il senso che c’è “altro” oltre a questo, soprattutto in un’epoca in cui di lavoro ce ne sarà sempre meno. Sarebbe utile interrogarsi, ritrovare uno scopo che oltrepassi l’attività lavorativa, perché noi non siamo animales laborantes ma esseri umani. Un ritorno dei cittadini verso la politica, attraverso una partecipazione attiva alla dimensione pubblica, potrebbe essere una soluzione.