Un argine cruciale contro inefficienza e spreco di soldi pubblici. Macché: lacci e lacciuoli, burocrazia che frena il lavoro di amministrazioni e imprese. Sono i due estremi tra cui, in Italia, oscilla il pendolo dei giudizi sulla disciplina anticorruzione. Da che parte sia fermo il pendolo nell’anno che deciderà il successo o il flop del Recovery plan è palese. Per recuperare i ritardi nella spesa dei fondi europei il motto del governo Meloni è “non disturbare chi vuole fare”. E allora il nuovo Codice dei contratti pubblici, scritto dal Consiglio di Stato ma modificato per assecondare richieste del vicepremier Matteo Salvini e dell’Anci (associazione di Comuni italiani), amplia e rende strutturali le deroghe sugli appalti apparecchiate dai governi Conte e Draghi: i piccoli Comuni continueranno ad affidare contratti senza gara e senza trasparenza.

L’abolizione del controllo preventivo – Pazienza se così, avverte il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, “si privilegiano i soliti noti, i più vicini all’assessore o al sindaco o al dirigente”. Intanto la maggioranza (con la sponda di Italia viva) ha espunto i reati contro la pubblica amministrazione dall’elenco di quelli per i quali sono esclusi i benefici penitenziari. Il centrodestra, poi, si prepara a depotenziare l’abuso d’ufficio già ridimensionato nel 2020, come ha annunciato più volte il guardasigilli Carlo Nordio. L’inquilino di via Arenula ha annunciato che varerà la sua riforma delle giustizia penale entro la fine di aprile. Nel menù c’è anche una revisione – in senso restringente – del traffico di influenze, e un’altra picconata alla legge Severino, per eliminare la sospensione per i sindaci condannati in primo grado. E poi un taglio netto alle intercettazioni, che secondo Nordio hanno “dei costi enormi, esorbitanti”. L’ex magistrato scelto da Giorgia Meloni per riformare la giustizia vorrebbe salvare gli ascolti telefonici solo nelle indagini per fatti di mafia e tettorismo, riducendone drasticamente l’uso in tutti gli altri campi. Compreso quello dei reati contro la pubblica amministrazione. Un settore nel quale avrebbe dovuto muoversi l’agente sotto copertura, la tecnica investigativa speciale introdotta in Italia per le indagini sulla criminalità organizzata, che la legge Spazzacorrotti aveva esteso anche agli illeciti penali in cui si ipotizza un caso di corruzione. Dopo l’approvazione del 2019, erano stati organizzati i corsi di addestramento nei vari ministeri – Difesa, Mef e Interno – per creare i primi nuclei speciali. Si tratta di corpi specializzati composti da meno di cento uomini. Che fine hanno fatto dunque gli agenti sotto copertura? Sono operativi da diversi mesi in tutto il Paese. Una risorsa utile, anche se difficile da utilizzare per varie problematiche di natura burocratica. Ecco perché alcuni addetti ai lavori suggeriscono l’ipotesi di un tagliando normativo. Opzione difficile, in un periodo in cui la linea politica governativa sembra più orientata a rimuovere i meccanismi di controllo preventivo. Un mix esplosivo che secondo Roberto Scarpinato, ex magistrato antimafia oggi senatore del Movimento 5 stelle, rischia di fare degli amministratori locali “la porta di ingresso ai fondi pubblici per mafie e lobby”.

Il testo scomparso – Durante la stesura del Recovery plan lo scontro tra visioni opposte è emerso plasticamente. Il testo trasmesso a Bruxelles dal governo Draghi il 30 aprile 2021 evocava la necessità di una riforma per “evitare che norme nate per contrastare la corruzione”, in particolare quelle su controlli, ispezioni e trasparenza, “impongano alle amministrazioni pubbliche e a soggetti privati di rilevanza pubblica oneri e adempimenti troppo pesanti”. Nel cronoprogramma vincolante, approvato a luglio dall’esecutivo europeo, quell’obiettivo non è però mai entrato. “Nel negoziato con la Commissione Ue, che ha una certa visione della trasparenza in materia contrattuale, quella parte è saltata”, racconta Nicoletta Parisi, docente di Diritto internazionale e dell’Unione europea all’università Cattolica, ex componente del Consiglio dell’Autorità nazionale anticorruzione e coordinatore di Libenter Ats, che si occupa di monitoraggio dei progetti del Pnrr. Di quel passaggio altri esperti di prevenzione dei fenomeni corruttivi danno un’altra interpretazione, più amara: si è scelto di non occuparsene. “Una riforma che semplificasse gli adempimenti sarebbe stata preferibile rispetto all’indifferenza” è il punto di vista di Anna Corrado, magistrata del Tar Lombardia, già esperta del Consiglio Anac e membro della commissione che tra 2019 e 2020 ha scritto una proposta di revisione della legge del 2012, poi rimasta nei cassetti di Palazzo Vidoni. “Le norme sulle porte girevoli tra pubblica amministrazione e imprese private (il cosiddetto pantouflage, ndr) non funzionano, la disciplina su incompatibilità e inconferibilità degli incarichi andrebbe completata, sulla trasparenza si registra un contrasto giurisprudenziale che solo il legislatore può risolvere”, elenca. “La direttiva sul whistleblowing, poi, doveva essere adottata nel 2021, ma il termine è stato fatto scadere e se va bene il decreto attuativo entrerà in vigore a marzo. Il regolamento sull’obbligo di pubblicazione delle situazioni patrimoniali dei dirigenti apicali non è mai stato scritto: a oggi solo quelli ministeriali sono tenuti a fornirle. E il nuovo ‘Piano integrato di attività e organizzazione’, introdotto nel 2021 per integrare i piani della performance e quelli anticorruzione, ha creato complicazioni interpretative e attuative lasciando il cerino in mano alle amministrazioni. È demotivante, lancia il messaggio che l’anticorruzione è argomento di scarso interesse”.

Prevenire, che fatica – Su questo esito Parisi concorda: è il punto di approdo, dice, di un quinquennio di “riflusso” in cui è passato il messaggio che la prevenzione fosse un inutile appesantimento. “Un servizio pubblico inefficiente è la porta di ingresso della corruzione. Una buona organizzazione basata sull’analisi dei rischi, come previsto dalla legge Severino, non solo la previene, ma migliora il funzionamento dell’amministrazione a vantaggio del cittadino, che della corruzione è la vittima perché paga le conseguenze delle risorse dirottate a favore di privati», ragiona. “Ma la maggioranza degli enti ritiene che sia un’operazione troppo faticosa e rispetta gli adempimenti solo di facciata”. Una linea di pensiero (e di azione) che s’incrocia pericolosamente con i contenuti del nuovo Codice degli appalti. Il varo ha avuto tempi contingentati, visto che è esso stesso un obiettivo del Pnrr. Per rispettare il cronoprogramma è stato approvato entro il 31 marzo, anche se l’effettiva applicazione scatterà a luglio. Alcuni dei 229 articoli hanno fatto saltare sulla sedia sia i vertici delle società di ingegneria e architettura sia gli esperti di anticorruzione. Perché se l’obiettivo dichiarato è valorizzare i “poteri discrezionali” dei funzionari pubblici e aiutarli a superare la famigerata paura della firma, la strada scelta per arrivarci non è quella della massima trasparenza sull’iter di affidamento dei lavori. Bensì una scorciatoia: sottrarre al mercato la stragrande maggioranza dei lavori.

Piccolo è bello? – Come ci si è arrivati lo racconta Francesco Merloni, che ha retto l’Anac tra la presidenza di Raffaele Cantone e la nomina dell’attuale numero uno Giuseppe Busia e in precedenza aveva fatto parte della commissione che ha elaborato la legge Severino. “Per fare bene le opere, tutelare la concorrenza e far crescere le imprese serve una pubblica amministrazione in grado di scrivere contratti e progetti in maniera adeguata, in modo da evitare contenziosi e chiudere la strada alla corruzione”, riassume. La rivoluzione che consentirebbe di andare in quella direzione è la selezione di poche centinaia di stazioni appaltanti qualificate (sulle oltre 35mila esistenti) a cui riservare l’aggiudicazione rapida ed efficiente dei medi e grandi appalti. “Il nuovo Codice in effetti contiene i requisiti per la qualificazione, un passo avanti visto che era prevista fin dal 2016 ed è rimasta lettera morta per mancanza del necessario Dpcm. Ma i tempi per arrivarci saranno lunghi. E su pressione dell’Anci, che con la scusa del “piccolo è bello” ha sempre fatto resistenza contro questa svolta, si è stabilito che in ogni caso anche le stazioni non qualificate potranno affidare da sé lavori fino a 500mila euro“. Il presidente di Anac Busia, che ha chiesto di ripensarci, sa bene che cosa significa: “Se un Comune non ha personale qualificato per fare appalti di alto livello, i lavori e gli acquisti li fa male. Così si spende molto di più del necessario e si buttano soldi pubblici. Le pubbliche amministrazioni soccombono nella contrattazione con i grandi gruppi privati”.

Burocrazia boomer – Il testo rende poi strutturali le eccezioni alle gare introdotte al partire dal 2019 per “sbloccare i cantieri”. Vuol dire che ogni ente locale continuerà a comprare senza gara da un’impresa a sua scelta beni e servizi per un valore fino a 140mila euro (ma la cifra finale può essere ben più alta se i contratti vengono spezzettati ad hoc) e affidare allo stesso modo lavori fino a 150mila euro. Mentre tra 150mila e un milione di euro basterà “consultare almeno cinque operatori economici” e tra 1 milione e la soglia europea di 5,3 milioni ne verranno invitati 10, Troppo potere nelle mani di un’amministrazione depauperata da anni di tagli e blocco del turnover e su cui si continua a non investire, lamenta Merloni. I risultati li vede tutti i giorni Giulio Delfino, che con la sua società si occupa di progettazione, consulenza e supporto ai Rup (i funzionari responsabili dei progetti): “Il personale è anziano. Altro che digitalizzazione, non sanno nemmeno usare gli strumenti telematici di acquisto. Le gare? Per i lavori sotto soglia di fatto non esistono più. La procedura negoziata non prevede nemmeno la pubblicazione del bando: si procede “invitando” imprese già note all’amministrazione a presentare un’offerta. Quelle che non sono nelle grazie di nessuno sono tagliate fuori”.

Un quadro da brividi se si pensa che in parallelo è stato modificato anche l’articolo che regolava il conflitto d’interessi. In senso opposto, secondo il presidente dell’Anac, rispetto a quello auspicabile per coniugare efficienza e prevenzione della corruzione. “È stato introdotto l’onere della prova”, spiega Busia. In pratica, se il funzionario affida il lavoro al cugino è chi si sente danneggiato da quella situazione a dover dimostrare che esiste una “minaccia concreta ed effettiva” all’imparzialità della procedura. Ma “anche se non c’è bustarella o corruzione”, attacca il giurista, “scegliere l’impresa amica, quella più vicina, e non la migliore danneggia l’interesse pubblico”. Cioè l’interesse a evitare gli sprechi e ad avere opere fatte bene.

Il contrario di quel che di solito succede, per passare a un altro tasto dolente, con il cosiddetto “appalto integrato”, cioè l’affidamento della progettazione e dell’esecuzione dei lavori allo stesso operatore economico. Il Codice del 2016 l’aveva vietato perché per le piccole stazioni appaltanti senza competenze significa “ritrovarsi un progetto diverso da quello immaginato, con aumenti spropositati dei costi, contenziosi infiniti e ridefinizioni che allungano i tempi di consegna”, dice Busia. Insomma: si fa, ma si fa male. Nonostante questo, il decreto Sblocca cantieri del Conte 1 e il Semplificazioni di Draghi hanno sospeso il divieto, con alcune limitazioni. E il nuovo Codice va oltre: per decisione del governo sarà consentito sempre, non solo per “appalti di lavori complessi” e opere di valore superiore a una certa soglia come invece aveva chiesto il Consiglio di Stato.

Intervenire prima – Affidamenti diretti, appalti integrati, qualificazione depotenziata. “Fin dal 2019 invece che investire sull’efficienza delle migliori stazioni appaltanti si è deciso di eliminare i controlli in itinere”, tira le somme Nicoletta Parisi. Ma aver imboccato la scorciatoia delle deroghe, e ora renderle strutturali, avrà un prezzo. “Controllare ex post serve a poco: a quel punto i soldi sono stati spesi. E le società hanno una grande capacità di mimetizzarsi cambiando nome e sede legale, in modo da diventare irrintracciabili”. Il denaro pubblico, insomma, è perso: nel caso i lavori siano da rifare paga ancora lo Stato. Se in ballo c’è un progetto del Pnrr tanto peggio: le risorse europee – che vengono erogate ex post, a obiettivi raggiunti – non arrivano. “Mai come questa volta è necessario intervenire prima che le frodi vengano portate a compimento”, conferma il colonnello Marco Thione, capo ufficio tutela entrate del Comando generale della Guardia di Finanza, che spiega come le Fiamme Gialle, oltre agli usuali strumenti di prevenzione, abbiano ora accesso al sistema di monitoraggio e rendicontazione Regis e alle informazioni che arrivano dalla rete dei referenti antifrode del Pnrr. Basterà?

Questo articolo è una versione aggiornata e ampliata del pezzo uscito su Fq Millennium di febbraio

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