Quello che la Lega ha rapidamente ribattezzato “Codice Salvini” è in realtà il Codice appalti scritto dal Consiglio di Stato sulla base della delega votata prima della caduta del governo Draghi. Con alcune modifiche – peggiorative secondo l’Anticorruzione – volute dal nuovo titolare del ministero delle Infrastrutture su richiesta dei Comuni e della maggioranza di centrodestra. La precisazione è d’obbligo di fronte alle critiche delle opposizioni, che sembrano sbagliare bersaglio e dimenticare come le deroghe alle gare che ora nonostante le critiche dell’Anac diventano regola (per decisione del massimo organo della giustizia amministrativa e non di Salvini) siano in vigore fin dal 2020 per spingere la ripresa post Covid e siano state poi prorogate da Draghi con il loro benestare.

I punti a cui il nuovo governo ha messo mano sono altri, e meriterebbero maggiore attenzione. Salvini ha depotenziato la qualificazione delle stazioni appaltanti, che era il pilastro della delega e avrebbe giustificato la discrezionalità nella scelta dell’impresa appaltatrice garantendo al tempo stesso qualità ed efficienza. Ha eliminato i paletti previsti per l’appalto integrato e sta nel frattempo smantellando gli strumenti di controllo contro la corruzione. E ha perlopiù ignorato le richieste di modifica fatte nel corso dell’esame parlamentare del testo dall’Anac ma anche da associazioni come Libera e Legambiente.

L’affidamento senza gara e il criterio del prezzo – L’affidamento diretto di forniture fino a 140mila euro e lavori fino a 150mila euro, così come la procedura negoziata senza bando (dopo consultazione di 5 o 10 imprese, a seconda del valore dell’appalto) fino alla soglia europea di 5,3 milioni, sono in vigore da tre anni. Il Consiglio di Stato ha scelto fin dall’inizio di renderle regola, anche se il ddl delega approvato dal governo Draghi nel giugno 2022 prevedeva altro: accanto al principio di “massima semplificazione della disciplina applicabile ai contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza europea” chiedeva infatti il “rispetto dei principi di trasparenza e di concorrenzialità“. Nella versione iniziale era previsto addirittura che la stazione appaltante, nel caso scegliesse di mettere a gara lavori sopra 1 milione, dovesse dare “adeguata motivazione“: quella frase è stata tolta su richiesta dell’Anac, che ha anche ottenuto l’aggiunta della necessità di affidarsi a “indagini di mercato o consultazione di elenchi di operatori economici” per tutte le ipotesi di procedura negoziata. In compenso il governo ha cancellato con un colpo di penna il divieto – nell’ambito delle procedure negoziate – di aggiudicare i contratti ad alta intensità di manodopera con il criterio del prezzo più basso.

Il subappalto a cascata – È una decisione del Consiglio di Stato anche la liberalizzazione del subappalto a cascata: scelta obbligata visto che l’Italia era sotto procedura di infrazione europea per il suo divieto generale ai subappaltatori di cedere alcune lavorazioni ad altre aziende. Resta la possibilità di escluderlo, a discrezione della stazione appaltante, quando sia giustificato da “natura o complessità delle prestazioni” o dall’esigenza di “rafforzare il controllo delle attività di cantiere e più in generale dei luoghi di lavoro o di garantire una più intensa tutela delle condizioni di lavoro e della salute e sicurezza dei lavoratori oppure di prevenire il rischio di infiltrazioni criminali”. Una formulazione troppo vaga, secondo Anac.

La qualificazione uccisa sul nascere dal governo – L’intervento a gamba tesa del titolare del Mit si è invece fatto sentire pesantemente sugli articoli relativi alla qualificazione delle stazioni appaltanti. Cioè il principio – previsto fin dal Codice del 2016 ma finora mai applicato – per cui solo quelle con adeguate competenze e mezzi devono poter aggiudicare gli appalti di una certa rilevanza. Il testo presentato dal Consiglio di Stato in ottobre prevedeva una sola deroga strutturale: tutti gli enti, anche i piccoli Comuni, avrebbero potuto continuare a fare da sé per forniture e lavori sotto la soglia dell’affidamento diretto, dunque non oltre i 150mila euro. Il nuovo governo ha alzato quel tetto fino a 500mila euro e in più ha previsto che le unioni di comuni anche piccoli e piccolissimi siano iscritte con riserva nell’elenco delle centrali di committenza qualificate. Così facendo si spazza via l’unico strumento che secondo gli addetti lavori potrebbe davvero consentire di spendere i soldi pubblici velocemente e senza sprechi. Ciliegina sulla torta, è stata cancellata la frase che imponeva alle stazioni appaltanti di tener conto delle attività formative del personale nel campo degli appalti “per la valutazione delle prestazioni dei dipendenti e per le progressioni economiche e di carriera”.

Largo a chi ha patteggiato una condanna – Matteo Salvini ha rivendicato di aver “faticato” per far sì che non bastassero “il semplice avviso di garanzia o il semplice rinvio a giudizio” per escludere un imprenditore dalla corsa agli appalti pubblici. Ma non ha detto tutto: per effetto della riforma Cartabia si è anche spianata la strada alla contrattazione con la pubblica amministrazione anche per chi abbia patteggiato una condanna per bancarotta, frode fiscale e altri reati tributari e societari.

Torna in grande stile l’appalto integrato – Il governo ha tolto ogni limitazione al ritorno dell’appalto integrato, cioè l’affidamento di progettazione ed esecuzione dell’opera allo stesso soggetto. Previsto dalla famigerata legge Obiettivo del governo Berlusconi, è stato riportato in vita con alcuni paletti dal decreto Sblocca cantieri del Conte 1 e confermato dal decreto Semplificazioni di Draghi. L’articolo 44 del testo iniziale del Consiglio di Stato lo riservava agli “appalti di lavori complessi” e ad opere di importo superiore a una soglia da stabilire, Salvini ha voluto la totale deregulation (con la sola eccezione dei lavori di manutenzione). La stazione appaltante dovrà tener conto del “rischio di eventuali scostamenti di costo nella fase esecutiva rispetto a quanto contrattualmente previsto”, visto che quando il progettista e l’esecutore coincidono il prezzo e i tempi tendono a lievitare con il “gioco” delle varianti. Altro che velocizzazione.

Il registro in house – Il Consiglio di Stato ha deciso di sopprimere l’elenco – tenuto dall’Anac – delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di società in house, cioè che fanno capo all’ente stesso. L’elenco esiste da cinque anni, durante i quali è emerso – ha fatto notare Anac in audizione – che “in circa i due terzi dei casi i requisiti dell’in house erano carenti e i soggetti esaminati erano spesso sostanzialmente equiparabili ad imprese liberamente operanti nel mercato, che godevano di affidamenti diretti di contratti pubblici, ottenuti senza gara, in assenza dei necessari presupposti“. E attraverso gli affidamenti in house sono stati “perpetrati molti abusi ai danni delle finanze pubbliche, che, in un momento storico ed economico come quello attuale, il sistema Paese non può in nessun modo permettersi”. Il governo non ha recepito le richieste dell’Anac in proposito.

Il conflitto d’interessi depotenziato – Il Consiglio di Stato, secondo l’Anac, ha anche depotenziato eccessivamente le disposizioni per la prevenzione del conflitto di interessi. L’articolo 16 infatti ne delimita molto la definizione: si configura solo quando nell’aggiudicazione interviene un soggetto “con compiti funzionali” che abbia direttamente o indirettamente un interesse “che può essere percepito come una minaccia concreta ed effettiva alla sua imparzialità e indipendenza”. Le frasi in grassetto nel precedente codice non c’erano. Ma soprattutto è stato rovesciato l’onere della prova: ora è chi “invoca” il conflitto a dover “provare” la “percepita minaccia all’imparzialità e indipendenza” che deve peraltro “riferirsi a interessi effettivi, la cui soddisfazione sia conseguibile solo subordinando un interesse all’altro”. Il governo ha ascoltato l’autorità solo su un punto: ha reintrodotto il comma che impone alle stazioni appaltanti di adottare “misure adeguate per individuare, prevenire e risolvere in modo efficace ogni ipotesi di conflitto”. Da sola, la modifica cambia poco: spetterà comunque ai danneggiati dimostrare che c’è stato un vulnus. Il principio generale di imparzialità viene così “degradato” da interesse generale a interesse specifico di un’impresa. Cosa che secondo il presidente Anac è a forte rischio di essere ritenuta in contrasto con il diritto europeo.

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