L’altra sera dalla Gruber il brusio delle banalità all’insegna del fare per il fare, sciorinate dall’attuale prototipo di imprenditore “illuminato” Diego Della Valle, con dandistica sciarpetta d’ordinanza al collo, mostrava in tutta evidenza la distanza che ci separa dal tempo in cui il mondo dell’impresa sapeva produrre pensiero del cambiamento: sul fronte privato un’idea di civiltà con Adriano Olivetti, su quello pubblico un approccio strategico allo sviluppo con Enrico Mattei.

D’altro canto il Della Valle dichiara apertamente la sua vicinanza intellettuale al “luogocominista” Stefano Bonaccini; colui che continua a ripetere il mantra buonistico “Giorgia non è fascista”, inquietante come le sue sopracciglia rasate e sostituita da due tatuaggi che sembrano codici a barre. Comunque il personaggio sconfitto nelle paradossali primarie Pd aperte agli odiatori del Pd dall’outsider Elly Schlein. Una simpatica ragazza molto sessantotto “chitarre contro la guerra”, che comunque nella sua campagna promozionale non ha lasciato intravvedere uno straccio di idea programmatica che non sia un’espressione di generici buoni sentimenti. E che nei suoi passi d’avvio, quale segretaria del primo partito (sedicente) di sinistra, con le sue titubanze su guerra e armi lascia intravvedere il rischio che sia affetta dalla “sindrome dell’ospite in casa d’altri”. Il sentirsi un po’ pesce fuor d’acqua.

Eppure i corifei dei cambiamenti apparenti, che fanno scena ma lasciano tutto immutato, plaudono al fatto che i due schieramenti odierni abbiano entrambi un leader di sesso femminile. Come se il rinnovamento dell’esanime politica nazionale dipendesse da un cambio di genere, non di pensiero e azione. La tanto auspicata femminilizzazione del pubblico dibattito. Sicché, qualora lo scontro tra le due fanciulle si riduca a pura immagine, è presumibile che l’istinto del killer, proprio della puffetta mannara Giorgia, della tenera Elly se ne faccia un boccone. Seppure questa Destra stia perdendo colpi su colpi; nonostante i pifferai e trombettieri mediatici alla Italo Bocchino (con la Concita De Gregorio a ore alterne).

Difatti, dando per imbalsamato Silvio Berlusconi, i leader della maggioranza Meloni e Matteo Salvini, quelli che hanno riesumato l’espressione “pacchia” intesa come fine degli andazzi determinata dalla loro presa del potere, stanno scoprendo che la pacchia finita è la loro: la possibilità di lucrare un clima di campagna elettorale permanente in cui far valere le loro abilità tribunizie da abili demagoghi. Ora il ministro leghista affonda nel ridicolo da sparate inconcludenti (e relativi disastri pro presunti target elettorali; tipo il sedicente “Codice Salvini” sugli appalti che cancella i controlli e incentiva la corruzione); specularmente lo sguardo stralunato della premier evidenzia lo smarrimento davanti a problemi che neppure riesce a inquadrare. Figuriamoci, affrontarli e risolverli. Tanto da piagnucolare di essere finita al governo nel peggiore momento della storia repubblicana (come se prima fossero solo rose e fiori).

Palese inettitudine di cui gli stessi partner europei dimostrano di essersene accorti.

Ennesima conferma dello scarto tra classi dirigenti. Per cui se in passato il mondo dell’impresa esprimeva Olivetti o Mattei e ora esibisce Carlo Bonomi o l’ineffabile Marco Bonometti, il presidente di Confindustria Lombardia che voleva impedire il lockdown al tempo del Covid per ragioni di bottega, il mondo della politica esprime diffuse sacche di inadeguatezza per via dei criteri di selezione del suo personale addetto, lascito del ventennio di Seconda Repubblica egemonizzata dal berlusconismo. Ossia la regola del successo propalata nelle convention Fininvest secondo cui il popolo italiano “ha un’evoluzione mentale di un ragazzino di seconda media”. Viatico per apprendisti stregoni muniti delle armi messe a punto negli arsenali della comunicazione, intesa come futili fesserie infiocchettate.

Altro che leadership portatrici di pensiero all’altezza della trasformazione in corso.

Anche se in questa lunga transizione, dalla fine del secolo americano a non si sa bene che cosa, è tutto l’Occidente a finire sull’orlo di una crisi di nervi. Soltanto che l’Italia, con tutte le sue debolezze strutturali, economiche, culturali e infrastrutturali è messa un po’ peggio di altri. E lo sarà fino a quando non emergeranno figure all’altezza della situazione. Ma al proposito vale sempre un’amara considerazione di Lucio Magri, che ci ha ricordato di recente il direttore di Radio Popolare Alessandro Gilioli: “Le nostre idee e le nostre speranze possono ripresentarsi nella storia a venire, ma in tempi lunghi e fuori dalla nostra portata”.

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