Il primo presidente nella storia degli Stati Uniti a essere incriminato. Donald Trump aggiunge un altro discutibile record a una carriera già costellata di scandali e sfide a regole e istituzioni. In due secoli e mezzo di vita della nazione, nessun presidente o ex presidente aveva mai subito l’umiliazione di un procedimento penale a suo carico. Succede con Trump, che viene accusato dai magistrati di New York di aver comprato il silenzio di una ex pornostar, Stormy Daniels, durante la campagna presidenziale del 2016. Trump reagisce e parla di “persecuzione politica e interferenza nelle elezioni”. I suoi avvocati dicono che comunque si consegnerà martedì alla giustizia di Manhattan, per ascoltare le contestazioni a suo carico. Incerto l’esito di un processo che, anche per l’accusa guidata dal procuratore distrettuale di Manhattan, il democratico Alvin Bragg, si rivela irta di incognite e trabocchetti. Certo è che questa storia avrà effetti importanti sulla scelta del candidato repubblicano alle presidenziali 2024, influenzando quindi il futuro stesso della democrazia americana.
È da poco passata l’una di un giovedì freddo e soleggiato quando i tre maggiori rappresentanti della procura di Manhattan varcano la soglia dell’edificio dove si stanno per riunire i 23 membri del Grand Jury, che per settimane hanno ascoltato testimonianze pro e contro l’ex presidente. Ciò che sta per avvenire è noto a tutti. La procura di New York sta per chiedere al Grand Jury la messa sotto accusa di Trump, che avrebbe violato la legge quando ordinò al suo avvocato, Michael Cohen, di pagare 130mila dollari a una ex pornostar, Stormy Daniels, che stava per rivelare a un giornale scandalistico di aver avuto una relazione con l’allora candidato repubblicano alle presidenziali. Trump non nega di aver pagato Daniels. Dice però che Cohen lo aveva rassicurato sulla legalità di un esborso che altro non era che un tentativo di estorsione nei suoi confronti. Lungi dall’aver commesso un reato, sarebbe quindi stato lui, Donald Trump, la vittima di un crimine. Il Grand Jury non gli crede e dà il via libera alla Procura di Manhattan, che incrimina formalmente Trump. Per l’ex presidente si tratta di uno smacco senza precedenti. In 50 anni di avventurosa carriera da imprenditore trasformatosi in star televisiva trasformatosi in presidente degli Stati Uniti, Trump era stato soggetto a molte inchieste, ma aveva sempre evitato un’incriminazione. Questa volta gli va male e chi lo ha visto in questi giorni nella sua residenza di Mar-a-Lago lo descrive oscillante tra euforia e confusione, certezza nella vittoria finale e rifiuto di guardare in faccia la realtà.
Per ora non si sa cosa la procura di Manhattan contesti a Trump. I capi di accusa si conosceranno soltanto quando gli verranno letti, martedì, al momento della sua consegna alla giustizia. Non è dunque chiaro se Bragg e il suo team abbiano deciso di contestare a Trump un misdemeanor, un reato minore, derivante dall’aver contabilizzato i soldi dati a Stormy Daniels come “spese legali” della Trump Organization. Oppure abbiano puntato più in alto, al felony, un crimine ben più grave. Dando quei 130mila dollari a Daniels, Trump avrebbe infatti violato la legge elettorale degli Stati Uniti, occultando importo e destinazione di fondi che appunto servivano alla sua campagna politica. L’incertezza sui capi di accusa rivela le difficoltà che l’accusa ha incontrato nel mettere in piedi la richiesta di incriminazione. Nel caso si fosse deciso per il felony, la procura dovrebbe infatti utilizzare una norma, che regola le campagne elettorali nello Stato di New York, per un voto che è stato invece su base nazionale: una sovrapposizione tra legge dello Stato e legge federale che non ha molti precedenti e che potrebbe essere liquidata al momento del processo. Come già anticipato, Trump farà poi leva soprattutto su un argomento: quello di essere stato vittima di un’estorsione. Quei soldi non sarebbero serviti a salvare la sua campagna politica. Sarebbero serviti a salvare la sua famiglia e la sua vita. Il paradigma accusatorio solleva quindi più di un dubbio, negli stessi uffici giudiziari di Manhattan. Mark Pomerantz, magistrato tra i più esperti in città, si è dimesso dal team di Alvin Bragg in aperta polemica con l’ipotesi dell’accusa. In un libro, Pomerantz ha definito la vicenda uno “zombie case”: una di quelle vicende legali destinate a vagare all’infinito, tra mille dubbi e interpretazioni, nei corridoi della giustizia.
Se non è ancora dato sapere cosa verrà contestato a Trump, si può immaginare quello che succederà martedì, quando l’ex presidente arriverà alla Manhattan Criminal Courthouse per ascoltare i capi di imputazione. Gli avvocati della difesa e la procura stanno in queste ore trattando sulle condizioni della consegna. All’ex presidente verrebbe risparmiata l’umiliazione delle manette. Ma verrà comunque fotografato e gli verranno prese le impronte digitali. Il giudice dovrebbe decidere subito dopo la sua liberazione senza cauzione. Per il tipo di presunti reati commessi, e per la sua storia e personalità, Trump non presenta caratteri di pericolosità sociale. La consegna volontaria di Trump solleva tra l’altro dall’imbarazzo Ron DeSantis. Nel caso l’ex presidente avesse deciso di non andare a New York, sarebbe infatti stato proprio DeSantis, nelle sue funzioni di governatore della Florida, lo Stato in cui Trump risiede, a dover dare attuazione alla richiesta di estradizione delle autorità di New York. Un compito che DeSantis, che è al momento il rivale più forte di Trump come candidato repubblicano del 2024, aveva già detto di non voler rispettare. “La Florida non collaborerà a una richiesta di estradizione, considerate le circostanze discutibili di un procuratore legale di Manhattan appoggiato da Soros”, ha scritto DeSantis su Twitter. Le parole di DeSantis richiamano un’accusa, dai chiari contorni antisemiti, che gira da tempo nei circoli conservatori: quella secondo cui Bragg sarebbe una marionetta manovrata da una cricca di finanzieri ebrei capitanata da George Soros.
Poi c’è il capitolo delle reazioni all’incriminazione. La notizia ha immediatamente conquistato i titoli dei giornali online e rivoluzionato i palinsesti delle TV. Su CNN era in onda “The Situation Room”, condotta da uno dei volti più conosciuti dell’emittente, Wolf Blitzer, che ha immediatamente messo in piedi una squadra di commentatori ed esperti che ha ruotato tra pomeriggio e serata. Fox News ha dato la notizia mentre era in corso lo show di Sandra Smith, “The Five”. La conduttrice ha interrotto la trasmissione e con faccia costernata, tra l’allarme dei suoi ospiti, ha detto solennemente: “Ne abbiamo appena avuto parola. L’ex presidente Donald Trump è stato incriminato da un Grand Jury a New York”. Prevedibili le reazioni politiche, spaccate tra gli innocentisti (i repubblicani) e chi invece considera l’inchiesta legittima (i democratici). “Una nazione fondata sulla legge deve ritenere penalmente responsabili anche i ricchi e potenti… altrimenti non sarebbe una democrazia”, ha detto il deputato democratico Adam Schiff, che ha guidato l’accusa ai tempi del primo impeachment contro Trump. Sdegno, proclami contro il “terrorismo giudiziario” vengono invece dai repubblicani. Bragg “ha irreparabilmente danneggiato il nostro Paese nel tentativo di interferire con le elezioni presidenziali”, ha spiegato lo speaker della Camera Kevin McCarthy.
Intanto, da Mar-a-Lago, troneggia l’indignazione e il senso di sfida dell’incriminato. Trump è convinto che, anche questa volta, ce la farà. Chiama Bragg, il suo accusatore, “una disgrazia”. Proclama la sua innocenza. Continua nella vita di sempre. Gioca a golf, riceve gli ospiti, organizza cene nella sua “bellissima residenza”, come l’ha chiamata. Alcuni dei visitatori delle ultime settimane lo descrivono comunque “distaccato dalla realtà”, incapace di capire davvero come l’inchiesta di New York, e le altre tre aperte su di lui tra Washington e la Georgia, possano incidere sul futuro. In segno di sfida, Trump ha anche postato sul suo account di “Truth Social”, un fotomontaggio, tratto da un giornale, in cui lo si vede con una mazza da baseball minacciare il procuratore Bragg. Il post è stato poi cancellato, su richiesta dei suoi collaboratori, preoccupati che le bravate possano ulteriormente alimentare l’asprezza dello scontro. Proprio tra i collaboratori di Trump serpeggia comunque una certa preoccupazione. Si era diffusa la convinzione che la procura newyorkese stesse rallentando la sua azione, e che il voto del Grand Jury sarebbe arrivato a inizio maggio. Le notizie da New York hanno quindi preso in contropiede molti e preoccupano, in previsione della campagna elettorale. Il processo a Trump, considerati i tempi della giustizia, non potrà tenersi prima di un anno. Ma la questione generale – può una persona incriminata diventare presidente degli Stati Uniti? – promette di condizionare pesantemente l’intero dibattito politico.