Per il governo e gli addetti ai lavori i numeri contenuti nella relazione della Corte dei Conti non sono stati certo una sorpresa. I gravi ritardi dell’Italia nella spesa dei fondi del Pnrr sono tornati da un paio di giorni al centro del dibattito politico, complice il nuovo rinvio dell’esborso della terza tranche, ma erano ampiamente noti già dai primi mesi del 2022. E fotografati con precisione nella Nota di aggiornamento al Def firmata lo scorso settembre da Daniele Franco e dall’allora premier Mario Draghi. Che il 25 aprile 2021, dopo alcuni mesi di limature e modifiche al testo scritto dal governo Conte, aveva inviato a Bruxelles la versione definitiva del Piano di ripresa e resilienza dell’Italia. Le date non sono un dettaglio: aiutano a capire da dove nascono i nervosismi di queste ore, con l’esecutivo in carica che sottolinea di essersi insediato a cose fatte (e nel caso di Matteo Salvini chiede alla Ue di non “trattarci diversamente da Draghi”) e il predecessore che fa trapelare irritazione per il presunto “scaricabarile“. Per individuare le responsabilità è il caso però di mettere in fila tutte le cause dei ritardi.

IL FLOP DELLE ASSUNZIONI NELLA PA – Come alcuni osservatori avevano spiegato fin dal 2020, il prerequisito per poter spendere presto e bene gli oltre 200 miliardi complessivi sarebbe stato ricostituire i ranghi della pa impoverita da un decennio di congelamento del turnover. A partire dai Comuni, cui è affidata la gestione di ben 40 miliardi. Ma per invertire la rotta sarebbero servite molte risorse aggiuntive: quelle del Pnrr, essendo un piano limitato nel tempo, possono essere usate solo per assunzioni temporanee a supporto delle amministrazioni per il tempo necessario. Così il governo Draghi, oltre a riformare l’iter di reclutamento, si è limitato ad avviare la selezione di personale a tempo determinato ad hoc. È stato un flop: contratti brevi e stipendi bassi scoraggiano dall’accettare quei posti e molto spesso i vincitori, avendo vinto anche altri concorsi, rinunciano al posto a termine in favore di un altro (sempre pubblico) stabile. Le condizioni offerte sono così poco attrattive che, stando alla ricognizione del Formez, trovare gli specialisti di cui ci sarebbe estremo bisogno per gestire gli appaltiingegneri, architetti, informatici – si è rivelato in molti casi impossibile. Secondo la Ragioneria generale dello Stato, lo scorso anno sono stati assunti in tutto solo 2.500 tecnici contro i 15mila attesi e, considerando i pensionamenti, il saldo tra uscite e ingressi è stato ancora una volta negativo. “In particolare nel Mezzogiorno” molte amministrazioni “non hanno competenze adeguate per seguire procedure così complesse come quelle del Pnrr”, scrive la Corte dei Conti nella sua ultima relazione.

LE SEMPLIFICAZIONI INSUFFICIENTI – Troppa burocrazia, procedure farraginose, enti locali lenti. I problemi atavici che hanno sempre frenato la spesa dei fondi strutturali erano ben presenti ai governi che hanno gestito i negoziati sul piano. Non a caso a partire dall’anno del Covid si è succeduta una raffica di decreti Semplificazioni che hanno introdotto ampie deroghe alle procedure di aggiudicazione dei lavori (le stesse che ora diventano strutturali con il nuovo Codice appalti), circoscritto la responsabilità erariale e il reato di abuso d’ufficio, ridotto i tempi delle autorizzazioni ambientali. Il primo l’ha firmato Conte nel 2020, il secondo – che prevede anche una procedura speciale per le grandi opere del Recovery – Draghi nel 2021. A febbraio il governo Meloni ha infine allargato l’applicazione dell’appalto integrato e delle procedure negoziate senza bando oltre ad accelerare l’attivazione dei poteri sostitutivi in caso di inerzia degli enti locali e, finalmente, aprire pur con molti paletti alla stabilizzazione del personale a termine. Tutto questo sforzo per togliere “lacci e lacciuoli” non è bastato, come gli esperti avevano previsto: sburocratizzare serve a poco se chi deve affidare i lavori non ha le competenze per gestirli.

L’AUMENTO DEI COSTI – Questo non si poteva prevedere: l’invasione russa dell’Ucraina ha accelerato la corsa dell’inflazione innescata dalla ripresa post Covid. I prezzi sono andati fuori controllo rendendo spesso impossibile aggiudicare appalti con basi d’asta ormai superate. Nel 2022 il decreto Aiuti ha messo a disposizione 10 miliardi per aggiornare i prezzari delle nuove gare e pagare le compensazioni per i lavori realizzati. Nella legge di Bilancio per il 2023 sono stati stanziati altri 10 miliardi spalmati su cinque anni. Ma alle imprese quella liquidità sta arrivando con il contagocce: il ritmo dei versamenti è lentissimo. Secondo i costruttori “con questo ritmo aspetteranno ancora anni prima di essere ristorate, con tutto ciò che ne consegue sul rischio di un imminente blocco delle opere in esecuzione”.

LE AGGIUDICAZIONI A RILENTO – In alcuni casi i ritardi derivano da pasticci procedurali dei ministeri. Prendiamo una delle missioni che al momento appaiono più a rischio, quella che prevede la realizzazione di 265mila nuovi posti negli asili nido. Già nel gennaio 2022 l’Ufficio parlamentare di bilancio ha bocciato il maxi bando da 3 miliardi scritto dal ministero dell’Istruzione guidato allora da Patrizio Bianchi perché basato su criteri “discrezionali” e “senza alcun apparente fondamento“. Per assegnare i fondi sono servite due proroghe e altri due bandi. Ritardi che hanno fatto slittare l’avvio dei lavori, tanto che a novembre è stato deciso di spostare in avanti una scadenza (in questo caso interna) prevista dal cronoprogramma del Pnrr. Ora i sindaci hanno chiesto al governo di negoziare il rinvio di quella europea di giugno. Un altro caso riguarda i nuovi impianti per la gestione dei rifiuti: la commissione di valutazione nominata dal ministero dell’Ambiente ha accumulato ritardi nella pubblicazione delle graduatorie dei progetti da finanziare. Una raffica di proroghe che potrebbe mettere a rischio l’obiettivo di affidare i lavori entro la fine di quest’anno.

I PROBLEMI DEL SISTEMA REGIS – La messa in funzione della piattaforma Regis della Ragioneria generale dello Stato per il monitoraggio e la rendicontazione dell’avanzamento del piano era una delle scadenze da rispettare entro la fine del 2021. In realtà è andata a regime solo nell’estate 2022. Molti funzionari locali non avevano idea di doverla utilizzare, tantomeno di come dovesse essere alimentata La questione non è secondaria visto che si tratta dello strumento che avrebbe dovuto garantire la trasmissione dei dati dalla periferia al centro e poi, di lì, a Bruxelles.

IL CAMBIO DELLA GOVERNANCE IN CORSA – Nell’ultimo decreto Pnrr il governo Meloni ha modificato la governance del piano spostandone la regia dal servizio centrale per il Pnrr presso il Mef, che diventa “Ispettorato generale per il Pnrr“, a una nuova struttura di missione con quattro direzioni generali a Palazzo Chigi. La rendicontazione alla Ue resta compito del Mef, ma la gestione dei rapporti politici con la Commissione e la valutazione di eventuali azioni correttive nei confronti delle amministrazioni viene affidata al Dipartimento per le politiche europee della presidenza del Consiglio, che fa capo a Fitto. A cui passano anche le funzioni della soppressa Agenzia della coesione territoriale. Il cambio in corsa non favorisce la velocizzazione.

I RAPPORTI CON LA COMMISSIONE – Dopo che la Commissione si è presa un altro mese per verifiche su tre traguardi del secondo semestre 2022, Matteo Salvini ha commentato: “Se non aveva dubbi fino a sei mesi fa quando c’era Draghi non voglio pensare che i dubbi nascano adesso con il cambio di governo, altrimenti sarebbe preoccupante”. Di sicuro è vero che i problemi legati alla disciplina delle concessioni portuali, all’aggiudicazione degli appalti per l’installazione di impianti di teleriscaldamento e alla selezione dello stadio Franchi di Firenze e del Bosco dello sport di Venezia tra i progetti di rigenerazione urbana per migliorare la qualità della vita sono da addebitare al precedente esecutivo. Che era come è noto in ottimi rapporti con Bruxelles. Oggi però, fa notare tra gli altri Openpolis, “la verifica sull’operato italiano si accompagna a una fase di confronto e trattative anche su altre tematiche (…). Come nel caso dell’approvazione del Mes che il governo per ora non intende votare. Tanto che l’Italia è l’unico tra gli stati membri a non averlo ancora ratificato. All’esecutivo la commissione sta inoltre chiedendo da tempo di intervenire sulle concessioni ai balneari, prorogate senza l’apertura di una selezione pubblica. Una grave mancanza che dal 2020 è stata attestata con una procedura di infrazione ancora pendente”. Roma si è poi messa di traverso sullo stop alle auto inquinanti, per difendere una tecnologia che Bruxelles giudica niente affatto a impatto zero.

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