Oggigiorno, a 37 anni, quando va bene si è entrati da poco nel mondo del lavoro. A quell’età, invece, Gioachino Rossini (1792-1868) – ricco, famoso, coccolato e corteggiato – chiuse la carriera teatrale e smise di comporre opere. Scrisse poi altre composizioni importanti (lo Stabat mater del 1832/42, la Petite Messe Solennelle del 1863, i deliziosi Péchés de vieillesse), ma al genere operistico non tornò più. Sappiamo che il silenzio ebbe ragioni diverse: insoddisfazione per il sistema teatrale vigente, vertenze contrattuali con l’Opéra di Parigi. La grave depressione patita poi per un paio di decenni fu forse più una conseguenza che una causa del ritiro.
Il silenzio del compositore è uno dei problemi che da sempre assillano gli studiosi, assieme ad un altro: come collocare Rossini nella diade “classico/romantico”. Quest’ultimo quesito, vero o finto che sia, si è tradotto nella difficile ricerca di una definizione dell’arte rossiniana: era il ridanciano Gioachino un settecentista attardato, fuori tempo massimo, o un innovatore impetuoso, stante la vitalità e l’energia sprigionate dalle sue opere buffe? I tentativi di spiegazione critica invalsi negli ultimi decenni fanno perno su concetti abbastanza evasivi come la categoria del “bello ideale”. Già ai suoi giorni il Cigno di Pesaro fu paragonato, dal suo primo esegeta, Giuseppe Carpani, ad Antonio Canova, per la suprema eleganza della scrittura; nel contempo, però, la carica di energia vitale della musica rinnega il contegno dell’arte neoclassica. Un grande critico del Novecento, Fedele d’Amico, se la cavò definendolo Dioniso in Apolline. La tesi del “bello ideale” ha attecchito anche per via di una delle rarissime dichiarazioni di poetica rilasciate da Rossini, in una famosa “passeggiata” con Antonio Zanolini (1836): una sorta di intervista d’un suo amico bolognese, giurista e politico. Il compositore dichiara che la musica “non è un’arte imitatrice, ma tutta ideale”. Il contesto spiega l’asserto: la frase musicale, dice, non può ricalcare puntualmente il significato delle parole. In pratica, Rossini respinge l’idea che la musica possa imitare il testo verbale. Può però rendere “l’atmosfera morale che riempie il luogo in cui i personaggi del dramma rappresentano l’azione”, può cioè colmare di significato la situazione drammatica, ma senza indugiare sui singoli vocaboli evidenziandoli.
Alla questione dedica belle pagine Andrea Chegai, ordinario alla Sapienza di Roma, nel suo Rossini, un’altra perla che si aggiunge alla collana L’opera italiana (Milano, Il Saggiatore, 2022): pone l’accento sulla “tendenza all’astrazione” della musica rossiniana, “concepita per essere riusata e rielaborata; fedele a un ideale incorporeo di bellezza, ha uno spettro semantico troppo ampio per esaurirsi in singoli personaggi o situazioni”. Insomma, “universale più che specifica”. Nella sua monografia, Chegai segue il filo della biografia: l’adolescenza vissuta nei teatri; i trionfali soggiorni a Napoli, Vienna, Parigi; le mogli, la diva del canto Isabel Colbran prima, l’amorevole Olympe Pélissier poi. E tratta l’arte di Rossini, affascinandoci. Delle opere mostra l’ambiente di produzione e fruizione, descrive la struttura, esamina la vocalità, delinea il background storico, che vede accavallarsi avvenimenti politici e militari di enorme portata per l’Europa. La scrittura è chiara, il lettore si appassiona senza sentirsi sopraffatto da tecnicismi impervi. Un libro di grande levatura, frutto delle doti scientifiche e divulgative di un brillantissimo studioso.
Non meno limpido è lo stile d’uno dei massimi esegeti rossiniani d’oggi: Paolo Fabbri, emerito nell’Università di Ferrara, direttore scientifico della Fondazione Donizetti di Bergamo. Il suo ultimo lavoro ha per titolo Come un baleno rapido (Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2022). È un verso tratto dalla Cenerentola, e sintetizza stupendamente l’effetto che fece il Pesarese nel firmamento artistico coevo: una meteora che brillò veloce, lasciò stupefatti, e cambiò il corso della musica. Il sottotitolo, Arte e vita di Rossini, suggerisce un impianto tradizionale; ma il libro presenta anche tratti innovativi. Uno soprattutto, e lo dichiara Fabbri stesso nel preambolo: far sì che le annotazioni tecniche indispensabili siano còlte all’ascolto, modalità imprescindibile per accedere al complesso mondo della musica. È questo un assunto pedagogico-didattico che Fabbri coltiva da tempo, e che anni fa lo ha indotto a curare un importante compendio di storia della musica (3 volumi, Lucca, LIM, 2019).
Questo suo Rossini impressiona il lettore, e non solo per la mole (838 pagine): la ricchezza della documentazione, l’acume analitico, la perizia nel collegare eventi artistici e fatti storici lasciano ammirati. Per un verso, è l’opera di un erudito, un filologo, uno storico di vaglia; dall’altro, di uno studioso che nei teatri vive e li conosce dal di dentro; di un letterato che di ogni testo, libretti inclusi, sa captare tutte le sottigliezze; di un intellettuale raffinato, infine, che coniuga la conoscenza dell’arte alla comprensione dei moti dell’animo. Con questa ponderosa monografia Fabbri ha posato una inaggirabile pietra miliare sul tracciato della critica rossiniana.