Non è la prima volta che il dollaro viene dato per moribondo e, in passato, queste previsioni si sono sempre infrante contro la solidità del biglietto verde. Arroccato nel ruolo di valuta di riferimento globale dalla seconda guerra mondiale in poi, il dollaro lo rimane ancora oggi e di gran lunga. Il 66% degli scambi globali viene gestito con questa moneta e il 60% delle riserve di valuta estera delle banche centrali di tutto il mondo, rimane in dollari, a fronte del 20% dell’euro e del 6% dello yen giapponese. La valuta statunitense domina inoltre nei mercati privati e in quelli finanziari. Spesso i paesi in fase di sviluppo e le aziende locali scelgono di emettere le loro obbligazioni in dollari per renderle più appetibili sul mercato. Questo è anche il principale motivo per cui le decisioni della Federal Reserve, la banca centrale statunitense, hanno immediate ripercussioni non solo sugli Usa ma sui paesi di mezzo mondo. Eppure le cose cambiano o provano a farlo e in questo momento lo fanno in modo accelerato
Nelle ultime settimane nel regno del dollaro si sono registrati piccoli e meno piccoli smottamenti. Russia e Cina sono i due paesi dediti con maggiore impegno al tentativo di de-dollarizzare i loro rapporti commerciali. Dal 2018 in poi, sia Mosca che Pechino hanno iniziato a ridurre la quota di dollari nelle rispettive riserve di valuta estere mentre circa l’80% degli scambi commerciali tra i due paesi avviene oggi in euro. Già dal 2015 Gazprom vende gas alla Cina in yuan mentre Rosneft dal 2019 utilizza l’euro per tutte le sue esportazioni. Il Cremlino sta discutendo la possibilità di utilizzare rubli e lire anche negli scambi con la Turchia.
Pochi giorni fa Cina e Brasile hanno raggiunto un accordo per gestire le loro transazioni commerciali scambiando yuan e real, emancipandosi così dal dollaro. Nel suo tragitto di allontanamento dagli Usa (fino a che punto?) e di avvicinamento a Pechino, l’Arabia Saudita starebbe valutando la possibilità di farsi pagare in yuan le ingenti forniture di petrolio vendute alla Cina. Di dimensioni ben più modeste, ma simbolicamente significativa, è anche l’intesa raggiunta tra la francese TotalEnergies e la cinese Cnooc per la fornitura di carichi di gas liquefatto (gnl) da pagare in moneta cinese. A lavorare ai fianchi il dollaro è pure l’India che nel frattempo compra sempre più petrolio russo. Potenza economica prepotentemente emergente, è convinta che il futuro sia multipolare e che non abbia senso incatenarsi ad alleanze “per la vita” con l’ uno o l’altro polo. Nuova Delhi è stata molto attenta a non allinearsi tra gli schieramenti stabiliti dalla guerra in Ucraina. Con Mosca è già in essere un accordo per commerciare in rubli e rupie e pochi giorni fa ha annunciato un’iniziativa per offrire la sua valuta per il commercio a paese che sono a corto di dollari e temono le ricadute della stretta monetaria della Fed. Un’opzione che in questo momento potrebbe risultare allettante per paesi come Sri Lanka, Bangladesh ed Egitto. La banca centrale indiana ha anche da poco dato il via libera a un accordo per la regolazioni degli scambi con la Tanzania con le rispettive valute nazionali.
In prospettiva però il fattore che rischia di pesare di più sulla valuta statunitense sono le sanzioni contro la Russia, inedite per dimensioni e portata, e la decisione di Washington di congelare le riserve della banca centrale russa in dollari detenute presso le banche centrali occidentali. E se domani facessero lo stesso a me? Si chiedono a questo punto governi ed élite di mezzo mondo. La stessa Svizzera sta pagando la sua adesione alla linea occidentale e l’addio alla sua storica neutralità. I ricchi cinesi e asiatici mostrano oggi più ritrosia a depositare i loro soldi nei forzieri di Berna e Zurigo, temendo che un giorno, magari quando la questione di Taiwan entrerà nella fase più calda, i loro averi possano essere bloccati indefinitamente tra le Alpi.
Lo stesso ragionamento gioca però contro Pechino, le cui attitudini autoritarie non infondono certo fiducia agli investitori. A queste condizioni è impossibile che lo yuan venga davvero preso sul serio come valuta di riserva e la banca centrale cinese venga ritenuta un’autorità monetaria con le carte in regola per svolgere un ruolo che superi i confini nazionali. Pechino ha messo in piedi un sistema di messaggistica sulle transazioni bancarie alternativo allo Swift statunitense (la Russia ha a sua volta una sua rete chiamata Spfs che si vorrebbe integrare con quelle cinese ed iraniana). Il sistema consente di regolare le operazioni in yuan ma resta per ora un nano, con transazioni che sono circa un ventesimo rispetto a quelle del circuito occidentale. La verità è che la Cina fronteggia un dilemma di non facile soluzione. Tutto sommato il ruolo predominante del dollaro sinora è stato più un vantaggio che un peso e ha permesso al governo cinese di condurre politiche economiche con discrezionalità dirigista. Il paese ha mantenuto artificiosamente basso il cambio della sua moneta nei confronti di quella statunitense per favorire le proprie esportazioni. Però, come sintetizzava il premio Nobel per l’Economia Robert Mundell, “Le grandi potenze hanno grandi valute”. Una grande potenza è ciò che la Cina è già ed aspira a diventare sempre di più. Ma per far diventare lo yuan una grande valuta serve un modo diverso di porsi verso il resto del mondo.