di Carmelo Zaccaria

Ci si aspettava da un governo politico, uscito largamente legittimato dalle urne, un’azione più energica, determinata, con un impatto immediato sui tanti e intricati dossier sul tavolo. Si pensava di vedere all’opera una centuria di acciaio, uno squadrone d’assalto ferreo e disciplinato; e invece scopriamo un coro di voci sconclusionate, una nidiata di coriacei battutisti dediti a contrastare l’insidia di una società aperta ed evoluta. Si propongono a raffica schemi concettuali retrivi, paradossi lessicali disturbanti come quello sugli studenti che hanno bisogno di umiliazione, sui migranti che fanno male a partire, sulle coppie arcobaleno che spacciano bambini, sui civili trucidati alle Fosse Ardeatine unicamente in quanto italiani.

Questa compagine governativa, si direbbe, tira dritto! Quando invece dovrebbe fermarsi un attimo, comprendere ciò che anima le dinamiche sociali piuttosto che voltare lo sguardo all’indietro per timore di essere coinvolti dall’attualità. La destra italiana, non potendo proibire per legge la modernità dei nuovi modi di vivere e di pensare, non riesce proprio a scrollarsi di dosso il morboso attaccamento ad un sistema di valori che non c’è più; spesso confonde l’ispirazione, lo spunto storico che serve ad elaborare e dare significato al presente, con l’imitazione, la scopiazzatura bigotta del passato, che diviene caricatura, pomposa nostalgia di una memoria, ai loro occhi, gloriosa, ma irripetibile.

Paradossalmente il fascismo per questa destra non rappresenta più una forza vitale del passato, ma una regressione del presente, il rifiuto del futuro.

Dopo pochi mesi di gestazione questo governo sembra già vecchio, consunto, povero di humus, ripiegato su se stesso, come un ciclista in affanno su un passo di montagna, con i piedi che strascicano sui pedali. La minaccia del nuovo, dell’ignoto, del discontinuo per la destra sono sempre stati un impedimento che ha rallentato la sua marcia, un ostacolo nel mettersi in gioco, preferendo ancorare le proprie convinzioni e il proprio linguaggio a clausole ideologiche che non hanno più ragione d’essere, rimanendo imprigionata in una trappola della memoria.

La malinconia nostalgica è uno stato dello spirito esiziale per una classe dirigente che tende a riproporre un modo di concepire il mondo perduto per sempre, che non può più ritornare; una forma di nostalgia che idealizza un passato di cui si conserva una percezione magnifica, esemplare, ma la cui assenza è così ingombrante che soffoca ogni spinta ideale, qualsiasi desiderio di sperimentare criteri estetici meno sterili, senza l’obbligo di ricordare, ad ogni occasione, parole, gesta, immagini e persino posture di un’epoca morta e sepolta, non più vitale, rigirandosi in un permanente “lutto patologico” che impedisce di guardare avanti, senza scimmiottare il passato.

L’angoscia melanconica, scrive lo psicanalista Recalcati, è come un manto che ricopre per intero l’esistenza sottraendole il futuro e inchiodandolo ad un passato idealizzato. Per questo, ancorati ad un ricordo nostalgico, a questa destra di governo accade spesso di allontanarsi dalla realtà fattuale, rifiutando di confrontarsi con i suoi richiami, le sue contraddizioni, rigettandola con la parodia di parole d’ordine fuori tempo, con reazioni spesso vanesie e aggressive, con espressioni di pura retroguardia, inadatte a rappresentare il poliedrico dinamismo della società contemporanea.

In realtà, contrariamente a quello che gridava inorgoglita e spavalda la nostra Giorgia durante la campagna elettorale, lasciata volutamente sola sui palchetti delle piazze d’Italia, non erano e non sono pronti. Il potere si nutre e si rinnova con le idee, non si puntella sulle nostalgie, sui rimpianti. Questa classe dirigente non è pronta per competenza e per affidabilità, ma soprattutto per non essersi saputa smarcare, dopo decenni di opposizione, da un passato indecoroso e improponibile, irrecuperabile, senza riuscire ad immaginare un progetto originale di futuro.

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