Un thriller d’antologia sul desiderio di possn poche ma preziose copie il 3 aprile la versione restaurata dalla Cineteca di Bologna di El di Luis Bunuel.essione e la paranoica gelosia di un ricco borghese. Esce i Film del 1953, quindi in pieno periodo messicano per il regista spagnolo, quando il surrealismo degli esordi si celava carsicamente sotto le mentite spoglie di un fulminante inquieto realismo per poi riemergere con Viridiana nel ’61 e sfidare le leggi della fisica della categoria “capolavoro” per una quindicina d’anni con un’altra manciata di film.
Bunuel trae spunto dal romanzo Pensamientos di Mercedes Pinto e mette in scena il delirio paranoico di Don Francisco Galvan (Arturo De Cordova), ricco possidente e fervente cattolico, proprietario di uno sfarzoso castello alla Xanadu. Durante la cerimonia del lavaggio dei piedi durante la Settimana santa, Don Francisco osserva gli eleganti e sinuosi piedi di una donna, Gloria (Delia Garces) e per lui è subito fremito appassionato. Dovrà averla, nel senso di una possessione stretta, fisica e senza scappatoie, ad ogni costo. La insegue, scopre che è la fidanzata di un ingegnere che conosce, invita a casa ad una festa il conoscente per avere anche la fidanzata, poi la corteggia insistentemente fino a quando lei cede e lo sposa. Improvviso flashforward e ritroviamo Gloria che quasi si fa investire in mezzo alla strada da un’auto guidata proprio dall’ingegnere suo ex. L’uomo la trova sconvolta, la fa salire in macchina e la donna gli spiega cosa è successo nelle ultime settimane di turbolento matrimonio: Don Francisco è gradualmente e letteralmente impazzito di gelosia fino a tentare di ucciderla tre volte (con una pistola a salve, al parapetto di un campanile, con le corde mentre dorme).
Ecco allora il lungo flashback dove scopriamo come è degenerata la situazione fin dal viaggio di nozze e la fine che farà l’oramai disperato e folle protagonista. El parte come fosse un’ossessione d’amore monodimensionale, eccessiva quanto canonica, intrisa di quell’ipocrisia sociale tradizionalista cattolico-borghese. Poi all’improvviso, dopo nemmeno mezz’ora di film, l’accelerata verso l’inferno. Il delirio paranoico di Don Francisco, ossessionato sia dal fatto che la moglie lo tradisca (e non lo fa) che dalla possibilità di non vincere una causa milionaria a cui tiene, è qualcosa di totalizzante sia psicologicamente che visivamente. La casa castello che si trasforma in prigione, ogni possibile sguardo in sfregio dell’onore, e intanto preti e parenti non mettono minimamente in dubbio la versione “sincera” del protagonista (è uomo, è ricco, figuriamoci) mentre Gloria lamenta ogni tipo di violenta angheria. Bunuel non disdegna lampi taglienti di surrealismo purissimo (il dettaglio del piede iniziale, quella specie di ago puntuto e affilato infilato nel buco della serratura per accecare l’occhio del presunto corteggiatore della moglie), ma confeziona nei particolari (l’acconciatura che si sfalda, il girare a vuoto del protagonista) e nella parabolica traiettoria d’insieme il cupio dissolvi di Don Francisco. La sequenza del tentativo di omicidio di Gloria sopra alla torre piena di campane è la base scenografica e significante su cui Hitchcock erigerà Vertigo (è del 1958 e il legame ci sta tutto). Anche se è l’autobiografismo di Bunuel, ancora lontano dal piano simbolico degli esordi e degli ultimi vent’anni di carriera, a colpire per disarmante fragile onestà: Don Luis ha sempre sottolineato come molti tratti caratteriali di Don Francisco non gli fossero estranei e che c’era pure qualcosa di biografico nel marito della sorella Conchita. Una curiosità, anzi due: c’è Bunuel sotto la tonaca del frate che di spalle zigzaga nel cortile di un convento (e non vi diciamo che personaggio del film è…); il pool di restauratori del film ringraziano nei titoli di testa nientemeno che Guillermo del Toro.