Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“Se vuoi vincere qualche volta, ti serve il talento dei calciatori. Se invece vuoi vincere spesso, hai bisogno degli uomini. Umiltà, orgoglio, sacrificio, grinta e determinazione: queste sono le qualità necessarie”. Osvaldo Jaconi, classe 1947, è l’allenatore che detiene il record per il maggior numero di promozioni in Italia: otto tra i professionisti proprio come Gigi Simoni, e tre tra i dilettanti. Da alcuni anni è alla Sangiorgese, società in provincia di Fermo. Lavora nel settore giovanile, ma da alcune settimane è stato chiamato ad allenare la squadra che milita in Prima Categoria. Tre le tante imprese nella sua carriera, quella ricordata maggiormente è la cavalcata del piccolo Castel di Sangro dalla Serie C2 alla Serie B. “A settant’anni avevo detto basta, dando le dimissioni alla Fermana. Avanti i giovani, mi ero detto. Ma il calcio non l’ho abbandonato. Quest’anno alcune vicissitudini a Porto San Giorgio hanno portato al cambio di due allenatori, non sono arrivati i risultati previsti e si è optato per una soluzione interna: io e Enos Polini, già mio giocatore a Civitanova negli anni Ottanta quando allenavo la Primavera, abbiamo accettato. Anzi metti prima lui di me”.

A rispondere quanto ci ha messo?
“Mi sono consultato con Enos. Non abbiamo potuto dire di no alla richiesta di aiuto della società”.

È emozionato per questo ritorno?
“No, devo solo rimettermi su una strada abbandonata sei anni fa. Sto imparando a conoscere un campionato che non ho mai avuto modo di vivere. Avevo fatto l’Eccellenza, ma mai la Prima Categoria. Sono cose diverse, in Eccellenza ci si allenava di giorno, qui alla sera dopo che i ragazzi hanno lavorato”.

Punta ad un’altra promozione?
“La società era partita facendo buoni investimenti per arrivare ai playoff. Il pensiero è lo stesso anche oggi”.

Il numero di promozioni è?
“Undici, record in Italia. Ma i record sono destinati a essere battuti e andrà benissimo così, i limiti sono messi là per essere superati. Ho 76 anni, se uno mi batte io gli faccio i complimenti”.

Quali sono state le più belle?
“Le vittorie sono tutte belle. A Castel di Sangro come con l’Atletico Leonzio, dopo essere stato lì qualche anno. A Savoia abbiamo cambiato categoria dopo undici mesi dal mio arrivo. Qualche amore è cresciuto lentamente, altri repentinamente. La migliore? Non lo so. Non si può dimenticare Livorno, tutte hanno un posto nella mia mente”.

Qual è il segreto?
“Ritengo di essere stato fortunato, al posto giusto al momento giusto, non è solo questione di bravura”.

E le sconfitte?
“Non le dimentico. Le vittorie sono arrivate grazie all’esperienza maturata negli anni difficili. Perché ad ogni conclusione di stagione, faccio un bilancio. Sono cambiato molto per merito delle sconfitte”.

Ci racconti di Castel di Sangro.
“Gabriele Gravina, un grande presidente, disse: non può essere stato un miracolo, ma il frutto di un lavoro costante di uomini. Non ci siamo accorti in quel momento di fare la storia del calcio. Cinquemila abitanti, in un paese a 800 metri di altezza: è strano arrivare ad un risultato del genere. Cinquemila abitanti sono un condominio di una grande città”.

Cosa è successo?
“Un popolo intero che ci sosteneva. Da poche persone al campo sportivo siamo passati ad avere 10mila persone allo stadio in B. Si era creata un’unione particolare che ha fatto andare la squadra oltre le proprie possibilità”.

I suoi maestri chi sono stati?
“Quando giocavo avevo già voglia di fare l’allenatore. Non sapevo se avrei ottenuto risultati, ma immagazzinavo informazioni. Quello che ha dato il la al mio lavoro è stato Beniamino Gegé Di Giacomo. Era un allenatore di un’altra epoca, dalla quale provengo anch’io. Aveva un’idea di calcio che non riguardava solo la parte tecnica e tattica. Bisogna conoscere la tattica ok, ma io ho sempre allenato gli ultimi quindici centimetri del calciatore, cioè la testa. Andavo al campo prima di tutti per controllare come arrivavano i miei calciatori. Un giorno uno può essere sorridente e l’altro scuro in volto: io non posso intervenire su un suo eventuale errore alla stessa maniera. Sono stato il secondo di Di Giacomo: dalla panchina mi mise in campo di nuovo e vincemmo il campionato di C2 con il Civitanova. È stato il mio ultimo allenatore, dal quale ho avuto la conferma che avrei potuto farcela anch’io”.

Com’era il calcio, quando lei faceva il giocatore?
“Io ho giocato negli anni Sessanta, nel 1967 l’esordio in A. Il calcio era diverso. Essere riuscito a passare attraverso l’evoluzione calcistica e a tutti i cambiamenti sociali, per me è un grande orgoglio. Bisogna stare al passo coi tempi, un allenatore che vuole durare tanto deve tenere presente queste cose”.

Cosa è cambiato?
“Sono andati persi alcuni valori e le regole si sono certamente ammorbidite”.

Cosa dovrebbero fare i maestri di oggi?
“Gli istruttori dovrebbero parlare molto di più con i propri ragazzi per sapere come la pensano”.

Il concetto più difficile da trasmettere?
“Il senso di appartenenza. Se tu manchi all’allenamento per futili motivi, manchi di rispetto a te stesso e a tutti. Sono gli adulti che devono far passare ai giovani questo”.

I suoi allievi le sono riconoscenti?
“Quando faccio qualcosa, io non voglio che mi si dica grazie. Se lo faccio è per il piacere di farlo, al limite sarò io a ringraziare. Non cerco la riconoscenza”.

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