La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha accolto il ricorso di un padre detenuto a cui era stato negato di vedere la figlia di dieci anni. Il rischio, secondo i magistrati lituani, era che l’incontro con i familiari o anche con la sola bambina potesse compromettere le indagini. La Cedu ha sanzionato la Lituania, ricordando che il rapporto tra padre e figlio va garantito, a prescindere dal reato, sulla base dell’articolo otto della Convenzione Onu per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

L’uomo, ristretto nel carcere di Kaunas, in Lituania, era stato arrestato nel 2019 per traffico internazionale di stupefacenti. Secondo l’accusa, sarebbe stato l’esponente di spicco di un’organizzazione criminale che spostava grossi quantitativi di sostanze illecite tra Paesi Bassi, Lituania e Russia. Pur essendo in custodia cautelare in carcere, era riuscito diverse volte a procurarsi telefoni cellulari, con cui comunicava con l’esterno. Il pubblico ministero lituano l’aveva messo sotto stretta osservazione perché temeva che il detenuto entrasse in contatto con membri della sua organizzazione rimasti a piede libero. In aggiunta, gli aveva proibito visite e telefonate da chiunque eccetto il suo avvocato.

Le richieste di vedere moglie e figlia erano state respinte diverse volte. “È sospettato di aver commesso reati gravi e gravissimi insieme a un gruppo organizzato”, avevano motivato i giudici. I magistrati gli avevano lasciato vedere la figlia una volta a tre mesi dall’arresto, dopo aver letto la relazione di uno psicologo per cui la bambina aveva sviluppato ansia e stress, forse dovuti alla reclusione del padre. Alle richieste successive, in cui l’indagato aveva invocato il primario interesse del minore, era seguito un rifiuto dopo l’altro.

Dopo due ricorsi persi in appello in Lituania, l’uomo si era rivolto a Strasburgo, dove la Cedu ha contraddetto i giudici lituani. “Secondo le regole penitenziarie europee, anche quando le visite non sono fattibili su base settimanale, devono essere agevolati colloqui proporzionalmente più lunghi e meno frequenti, che consentano l’interazione bambino-genitore”, si legge nella sentenza. La corte di Strasburgo ha condannato lo Stato lituano a pagare 5mila euro di danni morali al detenuto e ha ammesso il ricorso. “È una vittoria”, commenta l’associazione Children of prisoners Europe che monitora i diritti dei bambini di persone recluse nelle prigioni europee. Per Cope, questo verdetto ricorda che “gli stati devono fare di tutto per tutelare il diritto di mantenere un legame sano tra i bambini e i loro genitori in carcere”.

L’associazione è tra i promotori delle Raccomandazione del Consiglio d’Europa, una convenzione siglata nel 2018 da 47 paesi europei per tutelare il rapporto tra figli minori e detenuti e basata su una carta in vigore in Italia dal 2014, voluta dall’associazione Bambini senza sbarre e rinnovata nel 2021 dal Ministero della Giustizia e dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Un passaggio di questo testo, che ha fatto da supporto alla Cedu per formulare la sentenza, ribadisce che a tutela dello sviluppo del minore, genitore e figlio dovrebbero incontrarsi entro una settimana dall’ingresso in carcere e da quel momento avere contatti frequenti e regolari (art. 2 della Carta nazionale dei diritti dei figli di detenuti e art. 17 della Raccomandazione del Consiglio d’Europa). Il meccanismo però è ancora discrezionale, perché nessuno dei paesi firmatari ha tradotto in legge le raccomandazioni. Di conseguenza, episodi come quello avvenuto in Lituania non sono isolati. Tra i più noti, il caso di Eva Kaili, che avrebbe visto la figlia per la prima volta dopo un mese dall’ingresso in carcere. Anche allora, associazioni come Cope e hanno sottolineato l’urgenza di regolamentare una procedura unica e vincolante per i figli di detenuti in Ue. Ma nel frattempo, nulla è cambiato.

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