di Chiara Schepisi*
Ognuno di noi ha una domanda che lo mette in crisi. La mia, da psichiatra, è spesso stata: ”Dottoressa, ma quella che ho io è una malattia?”. La risposta è spesso stata “sì” perché quelle psichiatriche, come quelle non psichiatriche, sono a tutti gli effetti delle malattie: hanno dei fattori di rischio (non del tutto chiariti, come d’altronde per molte altre malattie), dei sintomi che le caratterizzano, un decorso, delle terapie indicate, dei rischi e una prognosi, cioè una previsione su come andranno. La risposta è spesso stata “sì” da dentro il mio camice, nel mio ambulatorio in tutto e per tutto uguali a quelli di altri medici. Ma la mia risposta è diversa da quella di un altro medico.
Perché fuori dalla mia stanza il mio paziente troverà il nome della sua malattia troppo spesso impropriamente e/o univocamente accostato a concetti parziali o negativi come incoerenza, stranezza, irrazionalità, debolezza di spirito, pericolosità e svogliatezza. Quanto incide questo sulla possibilità che il mio paziente, uscito da una visita medica con una diagnosi medica, possa entrare a pieno diritto nella “comunità dei malati” dove non c’è colpa né giudizio, ma cura? Eppure, con gli altri malati condivide lo spavento, l’angoscia, la scoperta di un sé malato, il percorso spesso accidentato della cura, la resistenza alla sofferenza e la difficoltà di incastrare la malattia nella vita.
Quanto incide questa appropriazione indebita dei termini psichiatrici, anche quelli più “popolari” (matto, pazzo, folle), sulla possibilità dei pazienti affetti da una malattia mentale di trattarsi ed essere trattati da malati come gli altri? Sulla loro possibilità di non essere definiti come persone in base a una conoscenza parziale e distorta della malattia di cui soffrono? Ribaltando la prospettiva in una bella serie di vignette che spesso circola sui social in occasione della giornata mondiale della salute mentale, un personaggio dà voce a frasi che, comunemente, un paziente affetto da depressione si sente dire riferendole però a un altro personaggio che mostra una malattia non psichiatrica. In una di queste vignette, a una persona con una gamba ingessata, viene detto “capisco che hai una frattura, ma potresti almeno provare a camminare!”.
A leggerla ci sembra quasi un nonsense, ma è proprio quello che succede spesso a chi ha una malattia mentale. Ai sintomi psichici viene attribuita un’intenzionalità o comunque viene sottinteso che “se vuoi, puoi”. Facile per un paziente arrivare da questo all’autocolpevolizzazione, all’idea che se non riesci ad alzarti la mattina non è perché sei affetto da una malattia (come ad esempio la depressione), ma perché sei svogliato. O che la tua difficoltà a salire su un autobus perché troppo affollato ha un nome e una cura non è “non riuscire a fare una cosa che fanno tutti”.
Riprendendo le domande che ci siamo posti possiamo rispondere prendendo in prestito ciò che ha scritto l’American Psychiatry Association in un articolo dedicato a pazienti e familiari dal titolo Prejudice and Discrimination Against People with Mental Illness: “lo stigma spesso deriva da una carenza di comprensione o dalla paura. Le rappresentazioni non accurate o ingannevoli delle malattie mentali contribuiscono a entrambi questi aspetti”.
Quindi lo stigma, cioè quell’insieme di stereotipi e pregiudizi sulla malattia mentale, è influenzato da come la si rappresenta. Ma quali sono le conseguenze? Tante, troppe e gravi. A un livello macro può portare a uno scarso investimento nella salute mentale delle persone, che riguarda tanto le malattie gravi e croniche quanto qualunque tipo di sofferenza psichica. A un livello individuale può portare all’autoisolamento, a non considerare la cura altrettanto importante rispetto a un problema non mentale, a una perdita di speranza e di autostima e come conseguenza di ciò a stare peggio.
Quindi, utilizzare con cura le parole della salute mentale riferendoci non a significati univoci, ma alla pienezza dell’esperienza di chi attraversa una sofferenza psichica. E’ necessario per creare una cultura popolare della salute e della malattia mentale.
*medico tossicologo, psichiatra e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale