Il medico del presunto “ricatto con escort” ai danni di un manager della sanità privata lombarda Cristiano Fusi è il marito di Marisa Cesana, unica consigliera eletta della lista di Attilio Fontana, confermato presidente a metà febbraio. Marisa Cesena “in Fusi”, si legge sugli estratti dell’ufficio di Stato civile. Non solo. Dal 2004 il fisiatra e la consigliera sindaco di Monguzzo (Como) sono anche soci di un poliambulatorio medico privato in via Padania 1 a Erba con sei dipendenti. Prima di allora, lei era responsabile del centro revisioni del padre (Elettrauto Cesana) mentre nella Fc Studio Medico di cui è socia al 60% si occupa di amministrazione. Quando si candida con la lista “Lombardia Ideale” per Fontana Cesana allega il proprio casellario giudiziale che recita “nulla”, il marito era indagato da un anno e mezzo nell’inchiesta sui tamponi al Monza Calcio il cui sviluppo ha portato ad aggiungere le accuse di sfruttamento della prostituzione ed esercizio abusivo della professione medica.
Era lui che al telefono chiedeva “hai foto?” al pregiudicato per bancarotta Gianluca Borelli, intento secondo l’accusa a ricattare un manager della sanità privata per mettere le mani sugli appalti per i tamponi. Fusi e Borelli dovranno rispondere di questi episodi di sfruttamento della prostituzione e di esercizio abusivo della professione. La vicenda è raccontata negli atti a corredo dell’ordinanza con cui sabato il Tribunale di Milano a disposto sei misure di custodia cautelare per diversi reati di bancarotta, in cui alcuni protagonisti sono collegati agli interessi della ‘ndrangheta lombarda.
Tra i capi di imputazione contenuti nell’ordinanza firmata dal gip Tiziana Gueli c’è anche quell’incontro “organizzato” da Borelli e Fusi tra il manager di un istituto del gruppo San Donato e una giovanissima prostituta, pagata 500 euro, in un albergo di lusso di Milano. E ciò, scrivono i pm, in cambio della “utilità consistente nell’avvio di trattative” con l’istituto clinico “finalizzate alla stipulazione di contratti aventi ad oggetto la fornitura di materiale per Covid 19“, tra cui mascherine e camici. In una telefonata del settembre 2020 Fusi parlando con Borelli e riferendosi al manager diceva: “Lui è il principino ma … da oggi pomeriggio il principino è sotto scacco, eh?“. E una terza persona, che aveva contattato la ragazza e prenotato la camera d’albergo, diceva: “Speriamo! Dobbiamo chiudere l’operazione”. La terza persona, ossia Josef Amini, avrebbe anche avuto “documentazione fotografica dell’incontro da utilizzare per il conseguimento dell’utilità”. E scriveva in una chat: “Tranquillo esce con le ossa rotte”. E Fusi rispondeva: “Hai foto?”. Il ricatto non riesce e la vicenda resta ai margini rispetto all’indagine principale per reati ben più gravi (con un’ipotesi di distrazione di 4 milioni di euro e di favoreggiamento verso le locali di ‘ndragheta di Lonate Pozzolo e Vibo Valentia).
“Per quanto riguarda la posizione del dottor Fusi, nulla è cambiato rispetto al 2020, quando è iniziata l’indagine, e la conferma è data dal fatto che, ad oggi, il mio assistito non è stato destinatario di alcun provvedimento”, fa sapere l’avvocato Ivan Colciago, che difende il medico insieme al collega Raffaele Della Valle. Il gip di Milano ha infatti negato il suo arresto chiesto dalla procura.
Resta agli atti la collaborazione offerta da Fusi a Borelli nell’aprirgli gli ambulatori della clinica La Madonnina di Milano, anche per eseguire tamponi benché non sia un medico. Chiede a Fusi “ma tu vieni?”. E l’altro risponde che l’addetto alla reception “ti aprirà lo studio in fondo, dai meno nell’occhio, ti prego”. Se Borelli viene indicato come “l’uomo cerniera” con persone vicine al clan, il medico Fusi è la cerniera tra due capitoli della stessa indagine. I pm Cerreti e Bonardi a fine 2020 avevano messo sotto la lente la gestione dei tamponi del Monza Calcio indagando proprio Borelli e Fusi. All’epoca, la Procura si era attivata per capire l’attendibilità dei risultati “anomali” dei tamponi fatti da Fusi sui calciatori della società monzese (estranea ad ogni ipotesi d’accusa). Il sospetto verteva su una possibile gestione “opaca” dei controlli da parte del team medico di Fusi che poi non ha trovato riscontri.