La scena si è ripetuta anche lunedì mattina nelle strette strade di Nablus, la città più popolosa della Cisgiordania. La colonna di jeep dell’Idf, le Forze di difesa israeliane, ha chiuso il reticolo di stradine intorno alla casa-obiettivo mentre da due auto e un pulmino scendevano civili armati. Le informazioni raccolte avevano indicato nella casa al primo piano il rifugio di due miliziani di Lions’ Den, un gruppo armato di nuova formazione diventato presto popolare nella galassia palestinese che non si riconosce né in Hamas né nell’Anp di Abu Mazen.

Gli uomini in abiti civili – sono “mistaravim”, agenti dello Shin Bet che agiscono sotto copertura e sono in grado di farsi passare per arabi – sfondano la porta. Ne nasce una violenta sparatoria, anche per strada dove i soldati dell’Idf sono sotto tiro di altri uomini palestinesi armati. I due ricercati – uno non schedato e l’altro nello staff di un dirigente di Fatah – vengono uccisi. Sparando, Idf e mistaravim si fanno strada per uscire dal centro città. I due trentenni palestinesi erano ricercati per il ferimento di due soldati israeliani la scorsa settimana nel villaggio di Hawara. Il 22 febbraio scorso, in una zona adiacente della città, per fermare tre miliziani di Lions’ Den – poi uccisi – l’Idf ha fatto 11 vittime collaterali. Passanti, fedeli che uscivano da una vicina moschea, due donne al mercato adiacente.

A marzo, in seguito a una sparatoria palestinese che ha ucciso due israeliani, centinaia di coloni sono entrati ad Hawara lanciando sassi e incendiando case, alberi e automobili del villaggio. Settanta abitazioni sono state colpite, alcune sono state danneggiate o distrutte da un incendio, altre saccheggiate o danneggiate in altro modo e 90 auto sono state date alle fiamme. I rivoltosi hanno ferito dozzine di palestinesi con pietre e spranghe di ferro e un uomo è stato ucciso da colpi di arma da fuoco allo stomaco. Lunedì scorso, i coloni israeliani sono di nuovo tornati a Hawara e hanno ferito sei arabi, secondo il ministero della Salute palestinese.

Questi sono solo due degli ultimi episodi di violenza esplosi in Palestina da quando è in carica il nuovo governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu. Dall’inizio dell’anno, in poco più di tre mesi, almeno 100 palestinesi sono stati uccisi da armi da fuoco israeliane o dei coloni, secondo un conteggio dell’Associated Press. Numeri che trasformano il 2023 già in un anno da record, dato che le Nazioni Unite avevano lanciato l’allarme sull’incremento della violenza già nel 2022, quando in 12 mesi le vittime palestinesi erano state 150. Gli attacchi palestinesi contro gli israeliani hanno ucciso invece 15 persone nei primi tre mesi di quest’anno. Siamo di fronte all’anno più sanguinoso in Terrasanta dal 2014. La violenza è stata costante, quotidiana per i palestinesi che hanno vissuto scontri con soldati ai posti di blocco, con le Idf che hanno intensificato la ricerca dei “lupi solitari”, o con coloni israeliani, alcuni dei quali scherniscono e attaccano i palestinesi con palese impunità.

Con l’arrivo del nuovo governo di Benjamin Netanyahu e dei suoi nuovi “amici”, i ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich – due famigerati razzisti xenofobi, più volte denunciati e, nel caso del primo, condannati in passato -, l’impressione è che adesso tutto sia possibile, che l’Idf in Cisgiordania si possa togliere i guanti e fare pochi prigionieri. Fra i coloni è palpabile quel senso di impunità, di certezza di farla franca. Hanno fatto il giro delle tv (arabe) di tutto il mondo le immagini di Hawara, dove un gruppo di coloni assalta un negozio e lo brucia mentre tre militari dell’esercito che si definisce “con il più alto standard etico al mondo” chiacchierano voltandosi dall’altra parte.

Dall’altra parte, alienati dalla principale leadership palestinese e cresciuti nell’era dei social media, una nuova generazione di palestinesi ha formato gruppi di autodifesa locali armati. Spesso con solo una manciata di combattenti. Gruppi sorti in tutta la Cisgiordania nell’ultimo anno hanno allentato i legami con fazioni consolidate come Hamas, Fatah o Jihad islamica e sono proliferate propaggini spontanee come il battaglione Aqabat Jabr, la Brigata Jenin, la Brigata Nablus, Lions’ Den. Senza una leadership centrale, i gruppi diffondono il loro messaggio attraverso canzoni, video di TikTok e poster di combattenti sui muri, offrendo un modello ai giovani arrabbiati per ciò che sentono come ripetute umiliazioni da parte di soldati e coloni israeliani. Le armi che maneggiano sono armi vere, sono M16, Kalashnikov, pistole, non sono armi che si possono fabbricare in casa, sono armi che arrivano da oltre confine, probabilmente contrabbandate dalla Siria.

Israele spesso accusa dell’ondata di violenza l’Autorità palestinese che nominalmente esercita un grado limitato di governo in Cisgiordania ma che in realtà è effettivamente impotente in aree critiche come Jenin, Nablus o Hebron. A peggiorare le cose, l’Autorità si è preoccupata per mesi del futuro del suo 87enne presidente Mahmoud Abbas, la cui eventuale uscita di scena rischia di scatenare una lotta di potere tra fazioni. Da parte sua, l’Anp afferma che il suo controllo è costantemente minato dalle azioni israeliane che indeboliscono la sua autorità e alimentano il risentimento tra i giovani, già alle prese con un’elevata disoccupazione e scarse prospettive. Se Israele con il nuovo governo di ultra destra affronta le più imponenti manifestazioni della sua storia che tratteggiano oscuri scenari futuri, a Ramallah l’atmosfera non potrebbe essere più cupa, mentre in tre o quattro sono pronti a prendere il posto del presidente Abu Mazen, con le buone o con le cattive. Si preparano mesi difficili in Terrasanta. Il sogno dei “due Stati” alla fine è stato inghiottito dalla realtà.

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