Da lontano potrebbero sembrare uguali a tanti altri, da vicino raccontano una storia diversa. C’è qualcosa di nuovo che emerge dagli scioperi francesi e che non abbiamo mai visto prima. Lavoro, salari, welfare, ambiente, disuguaglianze: conosciamo le istanze, ma difficilmente le avevamo viste rivendicate tutte insieme e da un’unica piazza. Che unisce età, professioni e provenienze in un clima di supporto generale dell’opinione pubblica. In Francia oggi si sciopera ancora dopo undici settimane di fila, al momento, senza sapere fino a quando e senza neanche preoccuparsene troppo. Una mobilitazione continua fatta di cortei ufficiali, convocati dall’alleanza intersindacale, ma anche di blocchi selvaggi che colpiscono alcuni dei settori chiave dell’economia (dai netturbini alle raffinerie). E la contestazione va avanti nonostante il muro di Emmanuel Macron e del suo governo, nel silenzio quasi assoluto di media e politici europei (e italiani). Ecco perché queste proteste non possono essere ignorate e quali messaggi stanno mandando all’Europa.
Gli slogan – Come una protesta si racconta può essere quasi più importante della protesta stessa. I cartelli, gli striscioni e gli slogan dicono molto di quello che la piazza sta chiedendo e della potenza che sta mettendo nel comunicarlo. E protestare al tempo dei social network e dei contenuti che possono diventare virali, rende l’aspetto simbolico ancora più necessario. È sui muri di Parigi che si trovano le tracce dei messaggi più duri nei confronti del potere: “Macron vattene, il tuo mondo non lo vogliamo”, è uno dei più delicati. Poi: “Fuck Macron”, “Il popolo vuole la caduta del regime”, “Macron ti odiano tutti”, “Morte al Re”, “Rivoluzione evoluzione”. Il confronto tra Macron e il Re Sole è uno dei più citati: il capo dello Stato è paragonato al monarca assoluto che diceva “Lo Stato sono io”. E poi, naturalmente, si rievoca la Rivoluzione francese: “Luigi XVIesimo l’abbiamo decapitato, Macron possiamo ricominciare”, è uno dei cori preferiti dagli studenti. E nei cortei c’è chi ha portato una vera ghigliottina in cartapesta. I cartelli poi, si dividono quasi equamente nella denuncia del lavoro come sfruttamento e dell’allarme per l’emergenza climatica. E, soprattutto, si stravolge il concetto di utopia: utopico non è chiedere di cambiare tutto, ma pretendere di andare avanti con il sistema attuale. “Utopisti in piedi”, è uno degli adesivi, rigorosamente di colore rosso, più distribuiti. Il secondo è “Vogliamo del tempo per vivere”, slogan su uno sfondo verde con un sole che sorge. “Vivere o lavorare. Bisogna scegliere”, è la scritta fatta con lo spray nero sulle mura di Boulevard Voltaire. Mentre è stata avvistata più volte una bandiera rossa montata su uno stendardo che recita: “Un violento desiderio di felicità”. Tutto quello che il sistema capitalista ha messo in secondo piano (la felicità, la salute mentale, il tempo libero), diventa nelle piazze francesi prioritario e il punto di ri-partenza. Scrivono: “Le nostre vite valgono di più dei vostri profitti”, “Aumentare i salari non l’età della pensione”, “I loro yacht andranno a picco con i nostri scioperi”, “Abbasso il lavoro”. “(G)rêve encore” è il gioco di parole usato più spesso dagli studenti: la parola sciopero (grève) viene fatta incastrare con sogno (rêve) e il risultato è un doppio messaggio: sogna ancora, ma anche sciopera ancora. Altrettanto importanti sono poi, i messaggi sull’emergenza climatica: “Per i nostri genitori sfruttati e i nostri futuri sabotati”, “Più 2 anni, i vecchi al lavoro. Più 2 gradi, i giovani sotto l’acqua”, “Il pianeta brucia”, “Macron deve tassare chi inquina”. E non ci sono solo le parole: ha fatto il giro del mondo il balletto della techno-ecologista Mathilde Caillard che si muove scandendo un ritornello che fa semplicemente “Taxez les riches”. Ovvero “tassate i ricchi”. Molto presenti anche le rivendicazioni femministe. Il collegamento l’hanno fatto in pochi, ma le decine di adesivi con lo slogan “No vuol dire no”, non rievocano solo le barricate, ma prendono in prestito le stesse parole usate nelle battaglie per il consenso e la violenza contro le donne.
Il supporto dell’opinione pubblica – Il 27 marzo scorso, a 24 ore dalla decima giornata di sciopero generale, uno dei ferrovieri della stazione di Anthony alle porte di Parigi si è schiarito la voce, ha preso il microfono e fatto un annuncio: “Domani, a causa di una enorme e importantissima mobilitazione, ci saranno disagi ai treni”. I passeggeri, impassibili, hanno accennato un sorriso. Gli scioperi creano disagi nelle città francesi da quasi tre mesi, ma ancora oggi il supporto a chi protesta è maggioritario. Tanto che ci si può permettere di annunciare trionfanti disagi alla circolazione a una platea di pendolari stanchi e non essere linciati. Anzi. L’idea maggioritaria è che, se tu stai scioperando, lo stai facendo anche per tutti coloro che non possono essere in piazza. Così si spiegano le centinaia di donazioni alla cassa dello sciopero intersindacale (che ha superato la soglia record di 3 milioni di euro raccolti) e le altre decine di casse auto-organizzate. Secondo un sondaggio di Toulouna Henry di dieci giorni fa, il 70 per cento dei francesi intervistati è a favore della mobilitazione (in crescita di tre punti) e sei francesi su 10 chiedono che i sindacati continuino a chiamare allo sciopero. Un clima di appoggio trasversale che poche altre volte si era respirato in Francia e che emerge nei posti più impensabili. Dalle università agli uffici pubblici, dai netturbini ai professori fino al mondo della cultura. E così ogni occasione diventa buona per far sentire il proprio sostegno a chi sciopera. Un esempio? Qualche giorno fa la cantante norvegese Girl in red si è esibita davanti al teatro dell’Olympia a Parigi: ad un certo punto ha chiesto, innocentemente, alla folla di insegnarle una parola di francese. Il pubblico è partito in coro: “Macron dimettiti”. Per più di 10 minuti, nessuno è riuscito a fermarli.
Non c’è una sola battaglia – Il sostegno è trasversale, anche perché ormai la piazza ha raccolto e accolto il malcontento di tante e diverse fasce della popolazione. E ne ha inglobato le rivendicazioni. “Chi l’avrebbe mai detto, la convergenza delle lotte”, recitava provocatorio il cartello di un gruppo di scienziati in sciopero in uno degli ultimi cortei. Ed è esattamente la fotografia di quello che sta succedendo. Si protesta certamente contro la riforma delle pensioni, ma di conseguenze anche contro il sistema neo-liberale e lo smantellamento del welfare a livello europeo. Per l’aumento dei salari, contro l’inflazione e perché si intervenga contro le diseguaglianze. Quindi, perché si agisca al più presto contro l’emergenza climatica. A unire le contestazioni, la percezione che manchi il tempo e che si debba agire il più in fretta possibile. E non solo. Dalla piazza e nei cortei emerge anche la richiesta che la protesta superi i confini nazionali. “Fuoco alle frontiere”, è un’altra delle scritte comparse sui muri. I francesi che protestano sanno che la loro contestazione, da sola, non può bastare. E guardano a quello che succede nelle piazze in Gran Bretagna, Germania, Grecia. E a quello che non sta succedendo, invece, in Italia.
Un movimento fatto per durare. E c’entrano anche i gilet gialli – Ma quanto durerà la protesta ancora? L’ansia di sapere se le contestazioni termineranno presto o tardi appartiene ai politici e ai commentatori. Nelle piazze, la domanda viene sempre respinta alzando le spalle: la rabbia è così profonda, è il ragionamento più comune tra i manifestanti, che se anche dovesse finire questa protesta, sarebbe solo un rinvio alla prossima contestazione. “Non è che un movimento sociale può semplicemente terminare”, commentava a ilfattoquotidiano.it una sindacalista in una delle decine di presidi di queste settimane. “Ogni volta impariamo da quello che c’è stato prima. Abbiamo imparato dalle piazze delle nuit debout e poi dai gilet gialli”. Le prime erano le cosiddette “notti in piedi”: un movimento di protesta che riempì le piazze francesi nel 2016 contro la riforma del lavoro del governo Hollande. Erano i tempi di Occupy Wall Street e l’esperienza francese seguiva l’onda degli Indignados, ma non fece molto rumore oltre confine. I secondi hanno iniziato le proteste nel 2018 e sono andati avanti per più di diciotto settimane: partirono dalle zone periferiche rurali e, soprattutto, fuori da Parigi per contestare l’aumento del costo della vita e del carburante. Divennero manifestazioni fisse e cadenzate che spinsero il governo Macron a cercare di lavorare sulla democrazia partecipativa. Sono stati i gilet gialli a mettere in pratica con costanza le proteste selvagge, i cortei non organizzati, i blocchi sui luoghi di lavoro e nelle strade. Azioni che ricordano molto direttamente quello che sta succedendo in Francia. “Quando dobbiamo sapere dove si sta protestando”, racconta una delle attiviste in piazza in queste settimane, “usiamo una mappa fatta proprio ai tempi dei gilet gialli che dice in tempo reale dove sono i cortei e dove la polizia”. Tante cose vengono da lì e tante altre se ne sono aggiunte. In comune hanno sicuramente l’obiettivo di durare, anche se non si è sempre in tanti. Anche se il risultato dovesse non arrivare mai.
La violenza – Infine, non si possono capire le proteste in Francia se non si tiene in considerazione la violenza. Quella massiccia, condannata dall’Onu e dalle grandi ong che difendono i diritti umani, della polizia. Quella che i manifestanti sono pronti a sfidare nei cortei selvaggi e non autorizzati, spaccando vetrine (rigorosamente quasi solo di banche e multinazionali) e accendendo fuochi nel cuore delle città. Ogni manifestante, a prescindere dall’età e dal suo grado di militanza, racconta che per sentirsi sicuro in strada deve attrezzarsi: fialette di collirio, bandana, mascherina ffp2 e magari un casco. A ogni sciopero generale il livello della tensione è sempre più alto e il governo risponde mobilitando numeri enormi di agenti (erano 13mila a Parigi solo per l’ultima mobilitazione). Gli scontri con la polizia erano all’ordine del giorno ai tempi dei gilet gialli, ma soprattutto, ancora prima, durante le proteste nelle banlieue del 2005 (ma pure nel 2017). Nelle manifestazioni di queste settimane c’è stato un punto di non ritorno: la repressione durante le proteste per il bacino idrico di Sainte-Soline. Lì è intervenuto il corpo, contestatissimo, della brigata Brav-M: agenti in sella a moto o quad che hanno colpito i manifestanti con granate lacrimogene e proiettili di gomma sparati con fucili Lbd. A causa di quell’intervento e dopo che, come rivelato dai giornali, per due ore sono stati impediti gli accessi ai soccorsi, il manifestante Serge D. è finito in coma e ancora non si è risvegliato. Se il governo nega che gli agenti abbiano mai oltrepassato il segno, Amnesty International è intervenuta insieme a Nazioni Unite e Consiglio d’Europa per chiedere di tutelare il diritto a manifestare. In Francia, nel 2023. Questo ha risollevato l’indignazione collettiva da una parte, dall’altra ha spinto sempre più persone a evitare le piazze per paura. “Se eserciti la violenza contro i giovani e chi manifesta, poi non ti stupire se la risposta è violenta”, ha detto a ilfattoquotidiano.it una funzionaria di 60 anni davanti all’Hotel de Ville di Parigi mentre protestava contro la repressione. “Se il governo continua a negare di averci presi di mira, non si aspetti che noi condanniamo chi si oppone e lo fa con tutti i mezzi possibili”. Chi viene dalle banlieue è quasi innervosito: ci sono attivisti che denunciano da anni l’impunità degli agenti nelle periferie. “Dov’eravate prima?”, azzarda qualcuno. Ricordando anche che, quando le proteste erano a Clichy-sous-Bois o Saint Denis, i giornali gridavano alle rivolte e di supporto in giro ce n’era ben poco. Ma quello era prima, ora non è il tempo delle divisioni. La sintesi perfetta spetta a Jean, studente al primo anno di giurisprudenza alla Sorbona, che ha preso la parola in una delle ultime assemblee infuocate: “Sento discorsi su come far cedere il governo o indebolire Macron. Sia chiaro che a noi non basta. Devono andare a casa e deve cambiare sistema. Noi scendiamo in piazza perché vogliamo tutto”. E suona un po’ come una delle scritte lasciate sui pannelli di legno montati per proteggere le vetrine di una banca vicino alla Bastiglia: “Il mondo o niente”. Finora, era (quasi) sempre sembrato un’utopia.