Anche se hanno patteggiato una condanna i politici possono ricandidarsi alle elezioni. Il colpo che fa diventare carta straccia una parte importante della legge Severino è contenuto in un parere del Viminale sulla riforma varata dall’ex guardasigilli Marta Cartabia. Come aveva già raccontato Il Fatto Quotidiano, infatti, il 13 marzo scorso il Dipartimento per gli Affari Interni e gli Enti locali aveva redatto una circolare, dopo essersi rivolto anche all’Avvocatura dello Stato, da inviare ai prefetti in prossimità della tornata elettorale amministrativa. In quel documento si dice che la riforma della giustizia varata dal governo di Mario Draghi riduce gli effetti extrapenali del patteggiamento. E dunque ha inciso anche sulla incandidabilità, introdotta dalla legge Severino, determinando la “abrogazione tacita” di questa norma.

Nel parere si fa presente che l’Avvocatura dello Stato ha rilevato che sia la Corte costituzionale sia la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno negato la natura penale delle misure contenute nella legge Severino, escludendone lo scopo punitivo, essendo state introdotte nell’ordinamento per assicurare il buon andamento e la trasparenza della pubblica amministrazione e delle assemblee elettive, arginando il fenomeno dell’infiltrazione criminale. Dunque l’incandibabilità prevista dall’articolo 15 della norma, con l’entrata in vigore della riforma Cartabia, “non produce più i suoi effetti“. Ne consegue, si legge nel parere, che tutti i condannati con una sentenza di patteggiamento “non incorrono più in una situazione di incandidabilità, potendo così concorrere alle prossime elezioni”.

Subito dopo il suo insediamento il ministro Carlo Nordio aveva incontrato una delegazione di sindaci e aveva aperto alla possibilità di modificare la legge Severino nella parte in cui prevede la sospensione per 18 mesi degli amministratori condannati in primo grado. Ora, però, il guardasigilli è concentrato su un pacchetto di riforme che potrebbero essere presentate entro la fine del mese e che vedono tra le priorità gli interventi sull’abuso d’ufficio e il traffico di influenze e sulla disciplina delle intercettazioni e della prescrizione. A dare una botta alla Severino, infatti, ci ha già pensato la riforma varata dal precedente esecutivo.

Non si tratta dell’unico effetto nefasto della riforma Cartabia. La legge che porta il nome dell’ex presidente della Consulta, infatti, ha dichiarato nulle tutte le disposizioni extra-penali che equiparano il patteggiamento alla sentenza di condanne. Per questo motivo, come ha raccontato ilfattoquotidiano.it, anche nel Codice Appalti è stata modificata la norma che impone l’esclusione automatica dalle procedure dei condannati definitivi per mafia, terrorismo, corruzione, truffa, riciclaggio, false comunicazioni sociali, turbativa d’asta e altri gravi reati. Nell’attuale codice (articolo 80), i provvedimenti giudiziari che fanno scattare l’estromissione sono tre: la sentenza definitiva di condanna, il decreto penale di condanna irrevocabile e la “sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti“, cioè il patteggiamento. Nel nuovo testo l’articolo 94 fa saltare quest’ultimo riferimento: basterà convincere un pm a patteggiare per avere un salvacondotto valido per tutti gli appalti. E dunque gli imprenditori che hanno patteggiato per bancarotta o frode fiscale potranno continuare a contrattare con la pubblica amministrazione. Che d’altra parte sarà guidata da politici in carica nonostante un patteggiamento.

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